«Cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so. Se desidero spiegarlo a qualcuno che lo chiede a me, non lo so». Così si esprimeva Sant’Agostino ed è quello che succederebbe se qualcuno dovesse chiedermi cos’è la tradizione. Ho le idee chiarissime per me ma, per gli altri, sono oscure come una notte di tempesta. La questione è però molto importante perché debba rinunciare, sic et simpliciter, a comprendere. Ne va di mezzo una bellissima storia millenaria che profuma di leggenda e al tempo stesso di storia. Cioè, per l’appunto, di tradizione.
Monsignor Caliandro, Lei ha compreso bene che intendo parlare della tradizione – tutta e solo – brindisina della processione del Cavallo Parato nel giorno del Corpus Domini. Una tradizione che affonda le origini nell’episodio avvenuto nel XIII secolo, allorquando il re di Francia Luigi IX – il “re santo” – al rientro dalla settima crociata (1248 -1254) ebbe un approdo periglioso nei pressi delle isolette delle Pedagne.
Il che significa che intendo parlare dell’intendimento di Sua Eccellenza (sempre che sull’argomento non siano state diffuse stupide fake news) d’interrompere questa tradizione abolendo la processione con il cavallo le cui briglie, quel lontano giorno, furono tenute da Federico II di Svevia e da Luigi IX, mentre l’anziano arcivescovo di Brindisi, Pietro III, con “il càmiso, cappa magna e mitria portava nostro Signore” sotto un baldacchino sostenuto dai dignitari della civitas.
Ma perché vado a impelagarmi, donchisciottamente, in una disputa con il Pastore della Chiesa brindisina? Perché nel silenzio assordante della comunità religiosa diocesana e cittadina, io, un semplice laico, vado a cimentarmi in un dibattito per il quale riconosco di non possedere – come si usa dire nel linguaggio del basket – i fondamentali?
Il fatto è che mi sto convincendo che le tradizioni, nella fattispecie quelle religiose, sempre che siano suffragate da un minimo di documentazione storica, debbano essere gelosamente conservate in quanto, in aggiunta alle motivazioni di natura spirituale, sono diventate esse stesse parte del popolo che ha vissuto quelle vicende e che tuttora le vive, anche se in altro modo.
E allora, se confutazione dev’essere, inizio proprio dalla rovinosa caduta da cavallo dello scorso giugno, la “madre” della decisione della S.V.. Ebbene, non credo che possa essere interpretata da Sua Eccellenza come “un segnale dal cielo”. Anche se è proprio di questi giorni l’uscita di un interessante libro di Vittorio Messori (“Quando il cielo ci fa segno. Piccoli misteri quotidiani”) in cui il cattolicissimo autore invita ad alzare lo sguardo dalle vicende terra-terra al sovrannaturale.
Anche il sottoscritto, una quarantina d’anni fa, fu vittima di un analogo incidente in una (sprovveduta) scuola di equitazione del Salento. Anche il sottoscritto patì la compressione del torace a causa della frattura di due costole e rinunciò per sempre, per colpa di un improvvido stalliere, a montare di nuovo a cavallo. Ma il sottoscritto, sulle spalle non aveva alcun peso, mentre la S.V. ha quello della tradizione…
E non mi pare eccessivamente motivato il convincimento di Sua Eccellenza sul fatto che la presenza del cavallo distrarrebbe i fedeli dalla venerazione del Santissimo Sacramento quando, al contrario, è facilmente dimostrabile che la processione brindisina rimane soprattutto un motivo di aggregazione spirituale.
Voglio subito precisare che a confutare queste osservazioni non è l’amore che un giornalista di una piccola (ma utile) testata di provincia nutre per questa città e nemmeno il suo saldo sentimento religioso, ma il fatto – inconfutabilmente storico – che la suddetta tradizione, a suo tempo, ha ricevuto il benestare della massima autorità vaticana, la Sacra Congregazione dei Riti.
Ometto di portare a sostegno della tesi a favore della tradizione brindisina i molteplici documenti nel tempo prodotti (documenti che giustificano, dal punto di vista della deontologia giornalistica, questo mio intervento) e provo invece a cimentarmi, con una provocatoria comparazione con l’esistenza di altri riti socio-religiosi che, parimenti a quello del Cavallo Parato, si muovono in quell’atmosfera rarefatta eppure magica del mito.
Comincio questa cavalcata (e mi scuso se l’aggettivo può rammentarLe la caduta) dall’evento per eccellenza, quello del Conclave che risale al 1270 quando gli abitanti di Viterbo, allora Sede papale, stanchi delle lunghissime indecisioni dei cardinali, li chiusero a chiave nella sala grande del palazzo papale e ne scoperchiarono il tetto (per fare più presto).
A tutt’oggi il rito continua a svolgersi nell’incanto della michelangiolesca Cappella Sistina che viene realmente isolata dal mondo dopo che il Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificali pronuncia la formula “Extra omnes” (Fuori tutti). Ed inizia la magia del fumo, bianco o nero, che fuoriesce dalla lunga canna. E tutti, al di fuori, a guardare l’incerto colore di quell’esile pennacchio manifestando gioia o delusione.
Anche della fondatezza religiosa di questo rito non si hanno certezze, eppure non mi risulta che né i Padri della Chiesa né i Dottori della Chiesa né alcun Santo l’abbiano mai posto in discussione. E la colonna di fumo, diversa da quella che si aspettava di vedere la speranzosa Butterfly, continua a salire nel cielo limpido o uggioso di una Roma che, nei millenni, ha visto di tutto e di più.
E se ora, con decreto, si stabilisse di abolire le sedute super segrete dei cardinali e l’annuncio urbis et orbi di quella colonnina, come la prenderebbero i fedeli? Anche in questo caso si direbbe che questa tradizione – così come quella del Cavallo Parato – è un orpello oramai superato dai tempi e soprattutto in pericoloso contrasto con la vera fede?
Personalmente credo che i telefonini e tutti i marchingegni di cui fa uso la comunicazione sociale continueranno a essere off limits dalla Cappella Sistina. E le schede votate dai cardinali e qualsivoglia altro appunto manoscritto continuerà ad essere bruciato in una semplice stufetta per segnalare al mondo, in tempo reale, se c’è o ancora non c’è il nuovo Papa.
Ma c’è un’altra tradizione che la Chiesa continua a conservare: quella dello scoppio del carro a Firenze. È una tradizione laico-religiosa risalente ai tempi della 1^ Crociata. La domenica di Pasqua il “brindellone”, la torre pirotecnica posizionata su un carro, viene trainato da una coppia di candidi buoi infiorati per le strade del centro storico e posizionato tra il Battistero e la Cattedrale. Al culmine della cerimonia l’arcivescovo accende dall’altare del duomo un razzo a forma di colomba (la”colombina”) che, tramite un meccanismo a fune, percorre tutta la navata centrale della chiesa e, dopo 150 m., raggiunge all’esterno il carro, facendolo scoppiare, mentre risuona festoso il canto del “Gloria in excelsis Deo”.
Anche qui, nonostante la pericolosità che presenta la cerimonia (anche per la persona dell’arcivescovo) nessuno si è mai sognato di abolire questa tradizione e, se ci provasse, credo che Firenze si proclamerebbe ipso facto ghibellina…
E cosa dire della tradizione del presepe? Nel 1223 S. Francesco d’Assisi si avviò verso l’eremo di Greccio dove espresse il suo desiderio di celebrare in quel luogo il Natale perché voleva vedere con gli “occhi del corpo” come il bambino Gesù fu adagiato in una mangiatoia. E d’allora il presepe è sempre esistito, proprio perché la Chiesa ha dato importanza ai segni, soprattutto liturgico-sacramentali, sorvegliando però che non sconfinassero in superstizione.
Naturalmente ove alla cerimonia del Cavallo Parato ostassero impedimenti di altra natura, si potrebbero agevolmente superare. Già nel 1931 Cesare Teofilato così si esprimeva: «Il vescovo, o il suo sostituto nel caso d’indisposizione del primo, doveva montare sopra una bianca mula e ricevere il Sacramento tra le mani…». Quindi l’eventualità di una sostituzione è sempre esistita anche se, credo, mai attuata. Ma si potrebbe anche pensare di modificare il percorso della processione stante la notevole pendenza e le sdrucciolevoli “chianche” di via Montenegro. Questo per dire che le soluzioni ci sono, anche se la migliore rimane quella che sia il successore di Pietro III a tornare a percorrere sul bianco cavallo le strade del centro storico!
«Amate Brindisi» ha detto Sua Eccellenza al termine del discorso pronunciato in occasione di un’altra storica tradizione, quella della processione a mare dei Santi Patroni Teodoro e Lorenzo. «Dobbiamo amarla – ha proseguito – perché Brindisi non è un paese, è una città bella».
E quale migliore dimostrazione d’amore, Eccellenza, di quella che preservi la tradizione del Cavallo Parato? Tradizione, come ben sa, sospesa per la prima volta dopo 713 anni (!) e ripristinata solo nel 1970 dopo l’accennato nulla osta della Sacra Congregazione dei Riti ed il decreto col quale il Suo predecessore – Mons. Orazio Semeraro – annunciò che la Processione si sarebbe ripresa «dopo conveniente e tempestiva preparazione catechistica, in modo che il popolo fedele vi partecipi con profonda devozione, come si conviene a una sacra Cerimonia, ricca di storia e di fede».
Mi piace concludere questa difesa della tradizione citando il pensiero dell’avv. Giuseppe Roma, un brindisino illustre: «Le tradizioni popolari, specie quando immemorabili, sono un aspetto dell’anima stessa del popolo che le esprime; e pertanto vanno riguardate con più attento cuore, piuttosto che con più attenta ragione».
Guido Giampietro
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