Il racconto lucido e appassionato di Pierpaolo Piliego su Piazza Santa Teresa ci ricorda una verità semplice e potente: funziona. Funziona quando una buona idea incontra una luce accesa. Funziona quando un canestro in una piazza torna ad attrarre ragazzi, relazioni, vita. Funziona quando lo spazio urbano si riempie di persone in carne e ossa.
Mi piace pensare che Piazza Santa Teresa sia il segno di un cambio di passo, di una consapevolezza che finalmente prende forma: la rigenerazione degli spazi pubblici parte da scelte concrete, talvolta minime – un faro, un campo tracciato bene, un angolo dimenticato che torna a pulsare.
Ma dietro c’è – ci deve essere – una visione che diventa patrimonio condiviso.
Brindisi forse lo ha compreso ed applicato in ritardo rispetto ad altre città, ma ha bisogno di questo: di luoghi che tornino ad accogliere, di linguaggi nuovi per creare comunità, di occasioni in cui lo sport diventa un ponte e abbatta le barriere.
Da qualche tempo la città ha iniziato a muoversi in questa direzione. Non è un caso se in questi anni lo sport ha trovato spazio nei parchi, lungo i corsi, sul lungomare, nei rioni. Non è un caso se esperienze come il CAG o il Parco Buscicchio sono cresciute attorno all’idea dello sport come leva di aggregazione. Se la Torretta del Paradiso è stata recuperata, se l’ex ACSI di Sant’Elia è tornata a nuova vita, se si è puntato sui playground di quartiere, se i SUP, i kyte ed i surf sono arrivati fin dentro il porto, se la scherma è entrata in teatro.
Certo, a Brindisi nulla è mai semplice. Le invidie, le rivalità sterili, le guerre tra poveri, gli interessi non nobili, le devastazioni e quella fame di posto al sole che avvelena il dibattito, sono ostacoli reali. Ma quando una visione è forte e autentica resiste. E cammina su molte altre gambe. Basta che siano disinteressate. Piazza Santa Teresa, in questo senso, è la prova concreta. Ed il Torneo dei Rioni ne rappresenta il modo migliore per comunicarlo.
Lasciamo pure che qualcuno pensi che “il Torneo dei Rioni” sia solo una competizione tra sei squadre. La verità è che rischia di rappresentare molto di più: uno switch culturale. È stato il momento in cui sport, comunicazione e partecipazione civica hanno trovato un linguaggio comune. Nasce da una opportunità concessa da Gabriele Perrone, cresce in seno all’ecosistema dell’informazione locale, responsabilizza e coinvolge media, associazioni, aziende, cittadini e istituzioni attorno a un progetto che parla a tutti. Non di medaglie, ma di appartenenza. Non di classifiche, ma di comunità. Non di palle, ma di orgoglio cittadino.
Un progetto senza scopo di lucro che ha vissuto di aggregazione e spiccato coinvolgimento, anche emotivo.
Questo intendo quando parlo di visione: un’energia collettiva da liberare nei quartieri, nei volti, nelle serate d’estate in cui i ragazzi scelgono dove stare — e da che parte stare. In questo contesto, lo sport è il veicolo più potente per raggiungere la vera destinazione: una città che si riconosce, che si ritrova, che ricomincia a camminare insieme.
Va dato atto all’attuale amministrazione che, almeno su questo fronte, ha scelto di dare continuità ad un percorso. Si continua a puntare sui playground, si valorizzano spazi come il CAG del Paradiso o il Parco Buscicchio, e si iniziano a raccogliere i frutti di una semina lunga e silenziosa. Certo, su altri temi – penso al turismo attivo legato agli sport del mare, all’idea di una Brindisi viva anche attraverso lo sport esperienziale – si poteva e si può fare di più. Ma la direzione intrapresa sullo sport di prossimità resta una delle leve più intelligenti e inclusive per far crescere davvero la città.
Il tema, però, non è solo amministrativo. È, prima di tutto, culturale. Sociale. Etico. Ha ragione Pierpaolo: recuperare gli spazi significa scegliere da che parte stare. Dalla parte del disincanto e del degrado, o da quella della cura e della partecipazione.
Certo, a Brindisi occorre un quid ulteriore perché è necessario tenere la barra dritta contro interessi, delinquenza e strumentalizzazioni, ma accendere un faro su un campetto è – e deve restare – una dichiarazione di fiducia. È dire ai ragazzi: “vi vediamo, vi riconosciamo. Voi contate. Fate pure”.
Ed è da qui che nasce il futuro. Da ogni piccolo campo che si illumina. Da ogni torneo che unisce. Da ogni cittadino che sceglie di non limitarsi a commentare, ma che toglie il dito dal telefonino, alza il culo dalla sedia e fa la propria parte. Perché una visione – se è vera – non ha bisogno nè di padri nè di figli. Basta che sia condivisa.
E soprattutto, che cammini.
Oreste Pinto
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