Il Decreto-Legge 24.6.2014 n. 90 “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” (questa la definizione ufficiale, ribattezzata dai mass-media “Riforma della Pubblica Amministrazione”) consta di 53 articoli riguardanti materie molto variegate e di “peso” diverso.
Non intendo soffermarmi sugli undici giorni intercorsi tra l’approvazione del testo da parte del Consiglio dei Ministri e la firma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (il Colle è stato chiamato a un intervento di precisazione dopo alcuni articoli di stampa che lo volevano in rotta di collisione con il Governo). Né intendo commentare tutte le misure contenute in questo pasticciato decreto-omnibus.
Mi soffermerò, invece, su alcuni provvedimenti che, a mio avviso, vanno a toccare dei nervi scoperti e ad evidenziare i “privilegi” di alcuni settori della Pubblica Amministrazione.
Fino ad oggi, i dipendenti pubblici che raggiungevano l’età pensionabile la rimandavano continuando nel frattempo a lavorare. Al fine di armonizzare la normativa con le direttive comunitarie e le sentenze europee e, soprattutto, per lenire la piaga della disoccupazione giovanile, il decreto si è imposto perciò l’onere di attuare quel “ricambio generazionale” su cui tanto si blatera.
Così, dopo un faticoso “labor limae” (suggerito da Napolitano al fine di evitare ricorsi costituzionali), si è stabilito che il 31 ottobre 2014 tutti i trattenimenti in vigore (cioè la possibilità di restare al lavoro oltre l’età di pensione) saranno annullati, mentre già dal 25 giugno u.s. non è più possibile ricorrere a questo istituto. Tale provvedimento, secondo il premier Matteo Renzi, libererà 15 mila posti per i giovani. Dice lui…
Però (art. 1, comma 3) “Al fine di salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari, i trattenimenti in servizio dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari nonché degli avvocati dello Stato, sono fatti salvi fino al 31 dicembre 2015 o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore”…
E il successivo comma 4, “Al fine di garantire l’efficienza e l’operatività del sistema di difesa e sicurezza nazionale…” sposta alla fine del 2015 l’abolizione del trattenimento in servizio anche per i militari delle FF.AA. (ma, chissà perché, restano fuori dall’eccezione la Polizia, il Corpo forestale e le guardie penitenziarie!).
Intanto perché questo antipatico distinguo tra i servitori dello Stato dello stesso livello? Perché non sono stati presi in considerazione dal decreto anche i rettori, i presidi, i professori universitari, i medici dirigenti, ecc.?
Dal canto loro i magistrati, contrari all’abrogazione del “trattenimento in servizio” (che in certi casi poteva trascinarsi fino a cinque anni) oltre il limite dei settant’anni di età, difendono a spada tratta la loro posizione.
E in questa difesa senza esclusione di colpi giungono a paventare il rischio che la ghigliottina della quiescenza obbligatoria possa creare improvvisi vuoti di organico, con relativa decadenza di molti processi e un caos aggravato nella gestione della giustizia.
Inoltre per i magistrati non sarà più sufficiente chiedere l’aspettativa, ma diventerà necessario il collocamento fuori ruolo. Quest’obbligo impedirà di continuare a svolgere le funzioni di magistrato mentre si ricopre un ruolo speciale nelle Amministrazioni, mettendo fine a prassi da part time che hanno un impatto negativo sul funzionamento della Giustizia. Dovrebbero però essere salvi gli incarichi in essere al momento dell’entrata in vigore della riforma.
Ma è proprio questo sproporzionato uso del “fuori ruolo”, gestito dal Consiglio Superiore della Magistratura, la causa principale ˗ a mio avviso ˗ del farraginoso (per non dire scandaloso) funzionamento della macchina della Giustizia. I vuoti di organico cui si appellano i magistrati sono dovuti proprio a questi forzati allontanamenti dagli uffici della giustizia più che al mancato trattenimento in servizio oltre i limiti d’età!
Nell’elenco dei “fuori ruolo” sono iscritti quei magistrati che nella loro carriera non sono stati destinati esclusivamente a funzioni giudiziarie, ma hanno messo la loro professionalità a disposizione di Ministeri, uffici della Pubblica Amministrazione, Authority, organismi internazionali. Arricchendo le istituzioni cui sono stati prestati, sostengono i diretti interessati. Ma sottraendo risorse all’amministrazione della giustizia sul territorio, ribatte chi è invece contrario a questo utilizzo delle toghe.
Oltretutto questa diaspora dei magistrati verso incarichi amministrativo-politici può determinare, in alcuni casi, anche conflitti d’interesse. È il caso ˗ tanto per fare un esempio ˗ di chi è chiamato a fare il capo di gabinetto o dell’ufficio legislativo al Ministero della Giustizia. Se il Ministro deve fare un provvedimento sulla responsabilità civile dei magistrati, chi lo scrive? Il suo capo di gabinetto? Cioè un magistrato che sarebbe direttamente interessato dalla norma…?
È anche vero che, dopo le osservazioni del Quirinale, l’obbligo di mettersi fuori ruolo, al posto della semplice aspettativa, per i magistrati che ricoprono un incarico di vertice nella Pubblica Amministrazione è uscito dal decreto per trasferirsi in un disegno di legge delega, che avrà tempi più lunghi. Ma intanto…?
Torniamo dunque su questo “fuori ruolo” che continuerà ancora a fare danni. In un periodo in cui da più parti (anche dallo stesso Csm) viene lamentata la carenza di organico sarebbe opportuno che i magistrati aiutassero ad amministrare la giustizia, soprattutto in territori difficili come quelli meridionali.
In un interessante articolo di Gianluca Abate uscito sul Corriere del Mezzogiorno, sono ben 84 i magistrati della Campania con almeno un collocamento fuori dal ruolo organico e destinati a funzioni non giudiziarie. Mentre, alla data del 27 gennaio 2014, sono 27 quelli della Puglia (il Csm, come esempio di trasparenza, li elenca tutti per nome) collocati almeno una volta fuori ruolo o messi in aspettativa.
È tornato invece in Corte d’appello a Roma il leccese Alfredo Mantovano, ex senatore e sottosegretario di Stato che è stato fuori ruolo per 19 anni e 3 mesi!
A dimostrazione, come ha detto Gianfranco Fini dal Palacongressi dell’Eur qualche giorno fa, che “la politica è come il tifo: non ne esci”…
Un magistrato (come un militare in servizio) può fare politica, può diventare parlamentare e perfino (è il caso di Michele Emiliano, l’ex sindaco di Bari) assessore alla sicurezza e alla legalità del Comune di San Severo.
Ma al di là delle leggi, delle sentenze, delle scappatoie politiche e dei garbugli giuridici, un magistrato, con tale comportamento indebolisce la sua immagine di indipendenza.
L’impegno in politica, il vincolo che si crea con il partito di appartenenza, l’idea di “utilizzare” la magistratura a seconda delle personali esigenze, provoca incertezze nell’opinione pubblica e incrina la fiducia nella funzione e in chi la esercita.
Naturalmente si accetta e si giustifica la volontà di un cambio d’interessi nel bel mezzo della propria vita.
Ma, in questa evenienza, la toga non va appesa temporaneamente all’attaccapanni dell’ufficio, quasi sia un monito per chi vi transita.
La toga, con il rispetto che le si deve, andrebbe conservata definitivamente tra le cose più care, così come la sciabola e le medaglie dei militari che prendono la medesima, grave decisione.
E tutto questo andrebbe fatto per amore della collettività e non certo per una sorta di bulimia di incarichi da ricoprire e prebende da incassare.
Finisca dunque una buona volta questo andirivieni tra gli uffici della Giustizia e quelli della Pubblica Amministrazione.
L’ambiguità ˗ è bene rammentarlo ˗ è un virus!
E si riduca da subito il pernicioso istituto del “fuori ruolo”.
Per una questione di dignità personale e di rispetto per le Istituzioni si decida senza ulteriori ripensamenti che cosa si voglia fare da grandi…
E se ci si accorge (anche dopo molti anni) che la missione del magistrato non faccia più al proprio caso, si cambi mestiere.
Ma, per favore, non si torni più indietro: o dentro o fuori!
Guido Giampietro
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