C’è un vetro. Sottile, trasparente, apparentemente innocuo. Divide il cittadino dall’impiegato, l’attesa dalla risposta, il bisogno dalla burocrazia. Un vetro che dovrebbe tutelare, garantire ordine, magari accorciare le distanze. Ma a volte, quel vetro diventa una vetrina. E quello che dovrebbe restare riservato, si trasforma – suo malgrado – in uno spettacolo pubblico, in un’aula all’aperto dove i fatti propri diventano fatti di tutti.
È accaduto ieri, al Comune di Brindisi. Anagrafe. Un semplice cambio di residenza, in apparenza. Una pratica ordinaria che però, come spesso accade, si carica di complessità quando si ha a che fare con minori, avvocati, carte bollate e sentenze. Lì, in quell’ufficio gremito, mentre le persone aspettavano il proprio turno, si è consumata una piccola scena che racconta molto del nostro tempo: un uomo, seduto davanti a uno sportello, ha dovuto spiegare – pubblicamente – dettagli che avrebbero meritato silenzio, rispetto, riservatezza.
Nulla da eccepire sul comportamento dell’impiegato comunale: professionale, cortese, imbarazzato. E non potrebbe essere altrimenti. Perché anche lui è vittima di un sistema che troppo spesso dimentica l’essenziale: la persona.
Viviamo in un’epoca che fa della privacy un mantra. Ci imbattiamo quotidianamente in pop-up che ci chiedono il consenso al trattamento dei dati, in clausole infinite che nessuno legge ma tutti accettano, in discussioni accese sui rischi della sorveglianza digitale. Ma poi? Poi capita che un genitore debba parlare della propria situazione familiare, dei figli, di un tribunale, di una scelta dolorosa, davanti a una platea di sconosciuti in attesa del proprio turno.
C’è qualcosa che non torna. C’è un cortocircuito tra il diritto sancito e la prassi quotidiana. C’è una legge che tutela, ma strutture che espongono. Perché il problema, ancora una volta, non sono le persone ma i contesti. Gli spazi. L’architettura di un luogo che dovrebbe accogliere e invece spesso rivela. Che dovrebbe proteggere e invece espone.
Forse è il momento di ripensare questi luoghi. Di immaginare sportelli che siano anche stanze, che garantiscano la possibilità – quando necessario – di affrontare certi argomenti lontano da orecchie indiscrete. Non si tratta di rivoluzioni, ma di civiltà. Di rispetto per le fragilità altrui. Di attenzione ai dettagli, che poi sono quelli che fanno la differenza tra un servizio pubblico e una pubblica esposizione.
E chiaramente, tutto ciò vale in ogni caso e nei confronti di chiunque: che si tratti di un cambio di residenza, di un atto notorio, di una richiesta di certificato o di una semplice dichiarazione sostitutiva. Perché non serve che la storia sia complicata per meritare rispetto. Ogni cittadino che varca la soglia di un ufficio pubblico porta con sé un frammento della propria vita: un’esigenza, un’urgenza, a volte persino un dolore. E nessun frammento, per quanto piccolo, merita di essere messo in vetrina.
Perché ogni cittadino ha diritto non solo a una risposta, ma anche alla dignità nel porre una domanda. Anche – e soprattutto – quando quella domanda contiene una storia che merita il silenzio.
Pierpaolo Piliego
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