Giorni fa, in occasione di una delle mie fugacissime scorribande su Facebook, mi sono imbattuto in una richiesta di raccolta firme per la costituzione di un Canton Marittimo. Canton Marittimo? – mi sono chiesto. L’ho dovuto rileggere un paio di volte quel post prima di rendermi conto che non era una delle bufale che la fantasia (talvolta patologica) dei navigatori immette nella Rete.
Tutto vero, dunque. Si tratta di un progetto teso a sondare la volontà dei Sardi di affrancarsi dalla Repubblica Italiana e richiedere l’adesione della Sardegna indipendente alla Confederazione Elvetica. Un’idea che «scaturisce dall’attuale contingenza che vede l’Italia intrappolata in un vortice di crisi politica e amministrativa apparentemente senza via d’uscita…».
Ma come? Salta fuori una questione Sardegna proprio adesso che perfino la Lega Nord ha mutato le priorità dell’originario editto bossiano relegando la secessione della padania (volutamente in minuscolo!) in una posizione subalterna a quella dell’immigrazione?
Come è possibile che a pochi giorni dall’esito negativo del referendum sull’indipendenza della Scozia si parli di un’iniziativa plebiscitaria per l’indipendenza dell’isola e, contemporaneamente, per l’annessione alla Confederazione Elvetica? Cosa conoscono i Sardi della Svizzera ˗ ammonisce un oppositore del progetto ˗ a parte le banche, gli orologi, la cioccolata, i coltellini e… Heidi? E che cosa fa loro pensare che gli Svizzeri siano disposti ad aggiungere alla federazione un 27° Cantone?
Indubbiamente la creazione di nuovi Paesi non rappresenta una novità. Dalla fine della Seconda guerra mondiale il numero di Stati indipendenti è quasi triplicato, e solo negli ultimi trent’anni più di trenta nuovi Paesi sono diventati membri delle Nazioni Unite. Tanto per rimanere ai giorni nostri, è possibile che fra poco la Catalogna voti per separarsi dal resto della Spagna, anche se il referendum catalano, a differenza di quello scozzese, non è stato approvato dal governo centrale di Madrid. Così come l’indipendenza del Quebec dal resto del Canada rimane un punto focale e controverso in Nord America.
Ma non è nemmeno da pensare che i confini nazionali siano entità permanenti. Si tratta, invece, di istituzioni che possono essere modificate con il mutare delle esigenze politiche ed economiche. Per di più, negli ultimi decenni, cooperazione internazionale e integrazione economica hanno aumentato gli incentivi per autonomie e localismi.
Questo spiega l’incremento delle domande per autonomia e indipendenza da parte di regioni che non si sentono rappresentate dai governi centrali tradizionali. In questo caso la reazione non deve essere la difesa dello status quo a tutti i costi, ma un uso creativo delle istituzioni democratiche.
Ma come vanno valutate le spinte separatiste? Da un lato ci sono gli entusiasti delle secessioni, dall’altro chi le vede come catastrofi. In realtà quando si forma uno Stato più piccolo dopo una secessione si manifestano dei pro e dei contro che variano a seconda della situazione interna del Paese in questione e della situazione internazionale.
Partendo da queste considerazioni di ordine generale qual è la chiave di lettura da dare alla proposta di secessione della Sardegna e della sua annessione alla Svizzera?
Il progetto ˗ se andasse in porto ˗ metterebbe su un piatto della bilancia l’ottenimento, per gli elvetici, di una sponda mediterranea e di un paesaggio marino complementare a quello alpino. Dall’altra parte consentirebbe al popolo sardo, “piagato da secoli di inettitudine amministrativa e disordinato colonialismo economico”, di usufruire del collaudato sistema amministrativo e dei vantaggi legati al sistema di democrazia diretta vigente nella Confederazione.
A prima vista parrebbe che i propugnatori di questo progetto (che resta largamente utopistico) abbiano fatto propria la massima di Aristofane: «La patria è sempre dove si prospera». Personalmente dissento dal grande commediografo greco e dai Sardi allorquando il concetto di Patria viene a identificarsi principalmente con ragioni di natura economica. Anche se ci sono altre recriminazioni (potenziale discarica di rifiuti, tossici e non, sito per centrali nucleari, eccessiva presenza di servitù militari, ecc.) addotte dagli isolani nei confronti dell’Italia.
È fuor di dubbio ˗ almeno in questo gli ideatori del progetto si dimostrano realisti ˗ che il conseguimento dell’obiettivo sia condizionato dal volere plebiscitario del popolo sardo, dalla disponibilità dell’Italia di accettare questa volontà popolare democraticamente espressa e dalla volontà della Svizzera di valutare positivamente l’adesione della Sardegna al patto confederale.
Da ciò si comprende quanto sia lungo e irto di difficoltà il cammino che s’intende intraprendere. Quello che a me suona stridente è il fatto che questo grido di secessione si levi proprio nel momento in cui si è dato il via alle commemorazioni per il centenario della Grande guerra. Una guerra che è costata la vita a milioni di italiani (Sardi compresi) che hanno creduto in un Paese unito e libero.
Inutile negare che gli ideali perseguiti dai nostri nonni e bisnonni non siano più i nostri (ammesso che oggi ci siano ancora ideali). Inutile illuderci che il sistema democratico, codificato in una Costituzione che mostra oramai i segni del tempo, sia in grado di affrontare le complesse problematiche del terzo Millennio. Inutile ignorare che la crisi che stiamo vivendo, più che economica, è morale.
Insomma appaiono oggi superate le parole che Nikolaj Gogol’ scriveva a Aleksandr Semendic Danilevskij: «Tutta l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci». Così come le altre, parimenti entusiastiche, indirizzate a Varvara Osipovna Balabima: «Chi è stato in Italia può dire addio agli altri Paesi. Chi è stato in cielo non avrà mai voglia di tornare sulla terra».
Romanticismo fuori luogo? Cecità nel non riconoscere il baratro in cui rischia di precipitare il Paese in mano a una classe politica in buona parte corrotta? Forse. Ma anche fiducia nel sistema democratico che ha in sé la forza per rigenerarsi.
Né più né meno di quello che afferma Luigi Rizzo nel suo saggio (“Da qui all’eternità. L’Italia dei privilegi a vita”) in uscita proprio in questi giorni nelle librerie: «Però si può fare qualcosa per diminuire, abolire, limitare questo sconcio… Qualcosa sta per succedere, il Paese è stanco. E tutto questo non lo sopporta più. Forse l’ha capito anche chi fa politica».
Oggigiorno il problema della richiesta di secessioni impone ai governi di rivedere la politica interna prestandosi, se del caso, a più larghe concessioni. È quello cui dovrà far fronte il primo ministro britannico Cameron che tanto ha promesso alla Scozia per evitare il distacco dalla madrepatria.
In quest’ottica chissà che, in un prossimo futuro, non si debbano ringraziare gli amici Sardi perché il disegno di annessione alla Confederazione Elvetica non diventi, per l’Italia, l’occasione buona per cambiare!
Guido Giampietro
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