I romanzi cyberpunk hanno destano e destano tuttora grande fascino in quanto sono esperienze letterarie profondamente visionarie, che spingono i loro sguardo al di là degli orizzonti delineati dalla fantascienza comune. Lo charme che il genere esercita è dovuto essenzialmente a due suoi tratti distintivi: la massiccia presenza della realtà virtuale e la figura del cyborg.
Il cyborg è un essere nato dalla fusione fra uomo e macchina (cyborg sta per cibernetic organism, organismo cibernetico), un legame intimo che si salda sul matrimonio fra la carne e l’acciaio; una possibile definizione è quella dello storico Channell, riportata da Mark Dery: “il cyborg non è una normale combinazione tra uomo e macchina, come potrebbe essere ad esempio un uomo impegnato ad usare un attrezzo; piuttosto, il cyborg richiede una relazione particolare fra uomo e macchina, nel senso che la macchina ha bisogno di funzionare senza una coscienza, in modo da collaborare con in controlli omeostatici che il corpo già possiede.”1
Questa puntualizzazione mostra perché la figura del cyborg suscita contemporaneamente curiosità e terrore: l’elevata pervasività della tecnologia che essa presuppone. Per accettare la nuova esistenza, bisogna essere pronti a lasciarsi pervadere dalla tecnica a livello biologico, a ridefinire la propria umanità, ospitando un corpo estraneo.
Importante è la puntualizzazione di Erik Davis, per il quale il cyborg non è una creazione delle ICT, poiché “gli esseri umani sono stati cyborg fin dall’anno zero. E’ nostro destino vivere in comunità che inventano strumenti che modellano la società e gli individui che ne fanno parte.”2L’osservazione però necessita di un’aggiunta: è vero che la tecnica modifica la società sin dall’alba del genere umano, ma solo oggi questa è in grado di strisciare sotto l’epidermide, riplasmando anche il mondo interno e quindi la natura stessa dell’uomo.
Le trasformazioni implicate nel processo di creazione del cyborg “alterano le strutture dell’immaginario: il corpo comincia a perdere cognizione dei propri confini, la tecnologia inanimata prende vita, diviene autonoma, la tradizionale integrità dell’io si frantuma, e lo stesso cotesto in cui esso opera si trasforma in modo da rendersi irriconoscibile.”3Paura del cyborg è, dunque, sinonimo della paura di mutare, temendo di perdere il controllo del sé, sotto l’azione di un agente esterno: la tecnologia.
La letteratura cyberpunk è una letteratura di cyborg, essi sono gli uomini comuni che abitano questi mondi, “la galleria delle mutazioni cibernetiche […] E’ lunghissima: la chirurgi cosmetica può rendere un uomo perfettamente uguale alla sua amante, la jakuza trapianta armi letali nei propri killer […] Microchip, display, Ram, hardware militare e protesi arma, insomma, rendono l’individuo che le possiede più forte, biologicamente meno vulnerabile.4 Prendendo spunto da Neuromante si possono citare alcuni esempi: “il braccio d’epoca cigolò quando Ratz si allungò a prendere un altro boccale. Era una protesi militare russa, o manipolatore a sette funzioni con feedback di forza, racchiuso in un tozzo guscio di plastica rosa”5; “gli impiegati M-G al di sopra di un certo livello erano impiantati con microprocessori di concezione avanzata che controllavano il livello di mutageno in circolo”6; “gli occhi verde mare erano trapiantati Nikon coltivati in vaso”7; “tese le mani avanti, il palmo rivolto all’insù, le dita bianche leggermente allungate, e con un clic appena percettibile le lame di dieci bisturi a doppio taglio, lunghe quattro centimetri, scivolarono fuori dai loro ricettacoli sotto le unghie color borgogna”8.
Di esempi ce ne potrebbero essere ancora molti, ciò che, però, è necessario sottolineare, è il fatto che nelle storie cyberpunk, la mutazione è un elemento naturale della società, un qualcosa che si dà per scontato, come è oggi, ad esempio, possedere un’automobile. In questi mondi, la tecnologia ha accelerato e sfaccettato i percorsi evolutivi, ognuno è libero di “costruirsi” una propria identità, virtuale e biomeccanica.
Queste finzioni letterarie sono panoramiche iperboliche della postmodernità, la quale, costantemente, filtra se stessa attraverso la tecnologia.
Apoteosi della tecnica pervasiva e incubo di ogni tecnofobo, sono i bopper ideati da Rudy Rucker, nella sua trilogia Software, Wetware e Freeware. I bopper sono esseri artificiali in grado di riprodurre l’aspetto fisico umano, grazie ad una speciale membrana cangiante, ma non solo, l’aspetto inquietante riguarda la capacità di emulare personalità ed emozioni, divenendo copie perfette delle controparti umane. Il bopper è, probabilmente, espressione della più grande paura che l’uomo nutre nei confronti del cyborg: la possibilità che la contraffazione artificiale possa soppiantare totalmente la vita biologica.
Riguardo questo problema, Formenti, prendendo spunto da Philip K. Dick, nota che man mano che al tecnologia progredisce e che i suoi legami con l’uomo si fanno più intimi, diventa sempre più difficile distinguere il vivente dal non-vivente, sulla base della semplice apparenza fisica.
In un contesto in cui umano e non umano sono esteticamente indistinguibili, il nuovo discriminante è rappresentato dal “modo” in cui ci si comporta, subentra così un inquietante paradosso: se il “cosa si è” cede il posto al “come si è”, una macchina che si comporta in modo empatico può essere definita “umana”, a scapito di un essere vivente, che, invece, si mostra insensibile. Così “il male […] Non sarà più il meccanico, bensì il macchinico, inteso come deprivazione emotiva e reificazione.”9
Una visione di questo tipo potrebbe garantire un approccio meno catastrofico e pessimistico nei confronti del cyborg, non incubo della contraffazione ma possibilità evolutiva, che avviene nel rispetto del concetto di umanità, improntato al “come si è” e non al “cosa si è”.
Volendo interpretare il cyborg in chiave mcluhniana, questo potrebbe essere definito come una creatura “tribale”, concetto che con i dovuti distinguo può essere tranquillamente applicato anche alla nostra società. Il cyborg è tribale nella misura in cui, attraverso gli innesti di cui è dotato, è costantemente collegato o alla rete o ad altri individui, vivendo in una società fondata sulla simultaneità, la quale spesso bypassa la scrittura (con l’eccezione del cyberspazio che necessita della tastiera) ricorrendo alla parola, mediata dalla tecnologia.
Sotto questo punto di vista i le similitudini fra noi ed un ipotetico cyborg sono molte, la grande differenza consiste nel modo in cui comunichiamo in tempo reale: il cyborg ha tutto il necessario incorporato oppure si collega biologicamente alla rete, mentre l’uomo postmoderno necessita di supporti esterni, come i cellulari.
Questa riflessione è utile poiché mostra come il concetto di cyborg, spesso alterato e distorto dai media ( basti pensare a Terminator), non sia un semplice cliché letterario figlio dell’amore per il fantastico, ma un tentativo di educare l’uomo a percepire la tecnologia meno estranea di quanto egli crede.
Il cyborg è metafora della tecnica come leva evolutiva, capace di migliorare la vita dell’uomo, senza comportarne necessariamente la trasformazione in senso negativo.
Di seguito verranno presentate alcune figure strettamente legate al mondo del cyborg, artisti e scrittori accomunati dal tentativo di usare questa figura come lente d’ingrandimento sui nuovi processi evolutivi, nonché metafore della postmodernità.
1 Mark Dery, Velocità di fuga, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1994, op. cit. p.256
2 Erik Davis, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, tr. it., Ipermedium, Napoli, 2001, p.30
3 Antonio Caronia, Domenico Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del cyperpunk, Baldini&Castoldi, Milano, 1997 p.108
4 Ibidem, p.119
5 William Gibson, Neuromante, tr. it. Mondatori, Milano, 2003, p.5-6
6 Ibidem, p.13
7 Ibidem, p.24
8 Ibidem, 28
9 Carlo Formenti, Incantati dalla rete, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p.84
James Lamarina
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