March 7, 2025

“Mi piaccion le sbarbine. Non posso farci niente mi sento deficiente, lo so che non conviene, ma poi chi si trattiene. Quelle alte un metro e ottanta, quelle basse uno e cinquanta, non esiste divisione quel che conta è il calore. (Skiantos)

La band era convinta che non avrebbe mai avuto un successo eclatante pur vivendo con coerenza e lottando con impegno per la sopravvivenza artistica se avesse continuato a rimanere in quella amata terra. Molte città come Bologna, Roma, Genova e Milano erano avanti, la musica era il motore. Si suonava nelle cantine, si disegnava, si recitava e si sperimentava, era un mondo artistico che si incrociava.

Nella città emiliana si moltiplicavano le etichette indipendenti che pubblicavano gli album su cassette mentre cresceva il numero delle fanzine che recensivano i lavori discografici dei numerosi gruppi in attività. Bologna rappresentava un riferimento importante per suonare, farsi conoscere e cercare un lavoro.

Era tempo di osare, partire, tra coraggio e una buona dose di incoscienza per una nuova avventura. I ragazzi avevano sposato sempre più la causa del rock’n’roll. Anche il look iniziava a cambiare: ciuffo al vento e un nuovo strumento come il contrabbasso dava ai Les Guitars & Guns una nuova causa su cui costruire il proprio futuro musicale e la credibilità, anche agli occhi dei paesani, da sempre diffidenti.

Si sentivano malfattori di un’idea clandestina rispetto al luogo di origine. La band aveva bisogno di un mezzo da guidare sulle strade della via Emilia per portare cavi, amplificatori e strumenti insieme ai sogni stipati dentro le valigie di cartone e ai borsoni adatti solo per le partite di pallone. Con una parte dei soldi messi preventivamente da parte come autentiche formiche, il gruppo riuscì a noleggiare un Volkswagen Transporter d’epoca, un furgoncino hippie di colore rosso e blu, molto amato dalle generazioni di ogni età.

“Ci manci pane e pummitore nu vai allu dottore”. (Proverbio salentino)
Da bravi genitori meridionali, le mamme avevano preparato con grande cura gli approvvigionamenti da consegnare ai figli prima dell’importante viaggio nel nord Italia: friselle di orzo e grano, boccacci di sugo con le polpette, spezzatino con le patate, taralli, melanzane e carciofini sott’olio, rape stufate, bottiglie di olio d’oliva, pasta fatta in casa e perfino una damigiana di vino rosso “casaluru”.

Mamma Antonietta, genitore di Giorgio, avrebbe voluto preparare anche una ghirlanda di “pimmitori te pendula o te corda, rossi e gialli”. Dario, con grande cortesia rispose che nella città delle due torri non avrebbero trovato un orto e soprattutto il posto giusto per appendere e conservare i pomodori con un metodo artigianale così accurato in una zona con un clima decisamente diverso. Tra le sincere e affranti lacrime dei parenti e l’imprecazione sarcastica degli amici del bar, arrivò il giorno della partenza: “a do itu scire, turnate alle case oscie”.

A Marittima c’era nonna Nuccia, una vedova di ottanta anni che tutto il paese aveva adottato. Il suo celebre “Mò te ciddhiuffo” era diventato il tormentone di tutti gli adolescenti. Per quella dolcissima e piccola signora col tuppo ai capelli, tutti i giovani del paese avevano un solo nome: “Ninni”.

Il giorno della partenza della band, nonna Nuccia si presentò nella piazza del borgo salentino accompagnata da Silvia, una giovane donna che l’assisteva nei momenti liberi. Stringeva un rosario tra le mani rugose consumate dal duro lavoro nei campi. Era molto religiosa, la sua casa era piena di santi e fotografie del marito Alfonso e dei parenti scomparsi: “La Mina, la Carmela, lu Miminu, la Tetta, lu Pietrucciu, la Lidia e la za Nena”. Sul capezzale del letto faceva bella mostra un vecchio dipinto, un quadro di Gesù con il cuore tra le mani.

Nonna Nuccia in ogni momento della giornata amava recitare: “Dolce cuore del mio Gesù, fa che io t’ami sempre più. Dolce cuore di Maria, siate la salvezza dell’anima mia”.

Con questi versi benedì i ragazzi prima della partenza. Come per incanto, lo spirito della musica si impossessò dell’anima dei cinque aspiranti musicisti.

Come ad una parata militare, il Volkswagen bicolore fece il giro della piazza principale di Marittima per il saluto finale e al suono scoppiettante della marmitta prese il volo sulla statale. Durante il viaggio c’era la voglia di saltellare sui sedili.

Il volume della radio era al massimo con le note di “Born to run” di Bruce Springsteen che si sprigionavano nell’aria. Dario mentre guidava pensava: “Siamo venuti fuori dal nulla. Non avevamo l’idea di creare una band. Le nostre canzoni nasceranno da noi. Le faremo sviluppare attraverso il nostro entusiasmo. Abbiamo assorbito il calore della nostra terra, le radici, il rock e lentamente abbiamo forgiato un suono. Credo che la nostra musica sia completamente diversa da quello che si può ascoltare oggi”.

Lungo l’autostrada, il mare Adriatico non aveva mai abbandonato quell’amabile pullmino rosso e blu. Per molti automobilisti quel mezzo incontrato sull’asfalto e nelle stazioni di servizio, destava simpatia e curiosità. Ad attendere Les Guitars & Guns a Bologna c’era una donna di mezza età di nome Wilma.

Era la titolare della casa presa in affitto, situata nei pressi del negozio di dischi “Nannucci”, famoso in quegli anni per i ricchi cataloghi e la vendita su corrispondenza.

Sigaretta in mano e con la vestaglia lunga a fiori, Wilma era tutto il giorno sulla soglia del portone dell’antico palazzo del centro storico della città felsinea a controllare con moderata autorità e profonda ironia che procedesse tutto bene tra i suoi inquilini. Gli onori di casa furono fatti da Amodou, un africano senegalese con pizzetto e treccine nei capelli.

Era arrivato in Italia da cinque anni, era studente presso la facoltà universitaria di Medicina. Oltre a studiare, Amodou lavorava per mantenersi agli studi come operaio in una azienda edile il cui datore di lavoro aveva assunto solo extracomunitari e padri di famiglia meridionali ai quali offriva una bottiglietta d’acqua e un caffè caldo durante la pausa pranzo.

Amodou era un bravo percussionista. Nel fine settimana lo incontravi a piazza Maggiore sotto la statua del dio Nettuno insieme ai suoi fratelli africani per interminabili sessioni che sfociavano inevitabilmente in balli tribali che coinvolgevano diversi studenti e cittadini del posto. Tutti avevano sposato la causa della ribellione e dell’integrazione a tutti i costi. Amodou cantava i blues di Robert Johnson e Blind Willie Mc Tell con profonda malinconia, soprattutto nei momenti di solitudine e più duri della giornata: “La mamma è morta e mi ha lasciato spericolato, papà è morto e mi ha lasciato selvaggio”.

Les Guitars & Guns condividevano la sala prove con un trio di musicisti provenienti dalla provincia di Cosenza, anch’essi emigranti musicali. Gli occhiali scuri sul volto e le lunghe barbe ricordavano i texani ZZ Top. Suonavano un vibrante rock’n’roll molto semplice ed essenziale: testi in inglese, pochi accordi e amplificatori sparati al massimo.

I tre componenti erano scappati dalla Calabria con un carico di “nduia” e la voglia di spaccare i timpani a chi continuava a violentare la loro terra. Il rock rappresentava una via di fuga e una forma di riscatto per quei ragazzi, spesso derisi dai bulli “dranghettisti”.

Tutti i componenti dei Les Guitars & Guns si misero alla ricerca di un lavoro che trovarono nel giro di una settimana: Giorgio e Donato furono assunti in una mensa scolastica, Pierluigi come cameriere in una pizzeria, Mario e Dario in una azienda metal meccanica. Il gruppo era molto unito. Dopo le prove e una giornata intensa di lavoro i ragazzi amavano uscire nella gelida notte bolognese. Il freddo non infastidiva. Nel corpo restava il calore dell’amicizia e il gusto di una birra e di un panino consumati insieme.

“Anche noi possiamo ritagliare un posto nostro. Abbiamo fatto una promessa che abbiamo giurato che avremmo ricordato. Nessuna ritirata, nessuna resa”. (Bruce Springsteen)

—SEGUE—

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