December 18, 2025

Ci sono opere che non appartengono soltanto a chi le ha realizzate. Appartengono ai luoghi che le hanno generate, alle comunità che le riconoscono come proprie, al tempo che continuano ad attraversare. Ciàf – La leggenda del Trofeo dei Giganti è una di queste.

A distanza di venticinque anni, il suo ritorno sul grande schermo va oltre l’evento cinematografico: è un fatto sociale e culturale che riguarda Brindisi nella sua interezza.

 

Ciàf nasce in un tempo analogico, in una città che stava cambiando pelle, e sceglie di raccontarla partendo da ciò che più la tiene insieme: il basket. A Brindisi la pallacanestro è linguaggio comune, rito laico, senso di appartenenza, spazio di riconoscimento collettivo. Un luogo simbolico in cui differenze sociali, anagrafiche e territoriali trovano una grammatica condivisa. Il film intercetta questa dimensione e la restituisce senza retorica, mostrando come lo sport possa diventare strumento di narrazione urbana e di costruzione dell’identità.

 

Che il parquet di gioco sia ambientato nel Villaggio Pescatori non è un caso. È uno spazio carico di senso: una periferia che diventa centro, un luogo popolare che si fa palcoscenico simbolico. È lì che il Trofeo dei Giganti, da semplice competizione sportiva, si trasforma in rito collettivo, memoria tramandata, occasione di appartenenza. In quel campo si riflette una città intera, con le sue divisioni storiche, le sue fedeltà, i suoi conflitti mai del tutto risolti.

 

Al centro del racconto c’è Totò, ultimo della rotazione, figura marginale solo in apparenza. Totò rappresenta Brindisi: una città spesso lasciata ai margini, chiamata a convivere con limiti strutturali e aspettative disattese, ma capace di resistere e di trovare, a tratti, il proprio momento. In lui si condensano fragilità e speranza, senso di esclusione e desiderio di riscatto. La sua attesa è quella di un’intera comunità che continua a cercare il proprio spazio, il proprio tempo, la propria voce.

 

Il valore culturale di Ciàf sta proprio qui. Come in tutte le opere di Salvemini, viene offerta dignità narrativa ai margini, ai comprimari, a chi raramente occupa il centro della scena. Il cortometraggio racconta il gruppo e la solitudine, i legami familiari, il peso delle aspettative, senza perdere di vista la dimensione collettiva. Mostra come l’identità non sia un dato immobile, ma un processo che si costruisce nel tempo, attraverso relazioni, rituali, conflitti e riconoscimenti.

 

Oggi, a venticinque anni di distanza, Ciàf torna come strumento di lettura del presente, in un tempo digitale. In una fase storica in cui i legami sociali appaiono più fragili e gli spazi di comunità sempre più rari, il film ricorda che l’appartenenza non è nostalgia, ma responsabilità. Che la memoria non serve a rifugiarsi nel passato, ma rappresenta il primo passo per comprendere chi siamo e dove stiamo andando.

 

Non è un dettaglio secondario che, nel ritorno di Ciàf, abbiano concesso la propria partnership la società di basket di Serie A e tutte le principali testate giornalistiche locali. Questa comunanza di comportamento va letta come un segnale culturale, prima ancora che organizzativo. È il riconoscimento condiviso che quest’opera appartiene alla città, che la sua storia riguarda il presente, che sport e informazione possono ritrovarsi attorno a un patrimonio comune senza bisogno di mediazioni forzate.

 

Questa convergenza indica la possibilità di un terreno comune, di una responsabilità collettiva nel custodire la memoria e nel trasformarla in racconto pubblico. Voler esserci è tutt’altro che una celebrazione autoreferenziale: è un gesto di attenzione e consapevolezza verso ciò che tiene insieme una comunità.

 

Restituire Ciàf alla città significa riconoscere al cinema un ruolo civile: conservare storie, generare senso, mettere in relazione sport, cultura e identità. Significa accettare che alcune opere continuino a parlarci perché hanno saputo raccontare una verità collettiva.

 

Ed è forse questo, oggi, il valore più profondo di Ciàf: ricordarci che una città esiste davvero solo quando sa riconoscersi nei propri racconti e decidere, insieme, di prendersene cura.

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