Album: Ágætis Byrjun
Genere: post rock / shoegaze
“1999 odissea nella musica parte I”. Probabilmente il sottotiolo più adatto per Ágætis Byrjun, secondo album degli islandesi Sigur Rós. Più che un semplice gioco di parole e di rimandi, il titolo di apertura della recensione vuole essere un omaggio ad un disco che ha profondamente modificato il panorama musicale contemporaneo, soffiando una ventata (o un uragano?) di aria fresca in una scena musicale come quella rock che, fatta eccezione per i polimorfi post-avant-qualcosa Radiohead, sulle soglie del nuovo millennio era alla spasmodica ricerca di un nuovo punto di riferimento stilistico.
Così come 2001 Odissea nello spazio raccontava dell’alieno monolite, la nera superficie che funge da invalicabile soglia per l’umana comprensione, destabilizzando gli avventurosi astronauti nella sua indecifrabilità, Ágætis Byrjun inietta nel tessuto musicale una atmosfera altrettanto straniante, traducendo in musica un background folkloristico fatto di sensazioni e di linguaggi (l’islandese), che suona incredibilmente nuovo e dunque altro da ciò che sino ad ora si era ascoltato. Il dizionario della musica classificherebbe Ágætis Byrjun come un disco sospeso fra post-rock, shoegaze, ambient e dream-pop, ovvero una struttura aperta con brani di lunga durata, intessuti di orchestrazioni, dilatazioni melodiche e cascate di chitarre elettriche, coronati da una voce sognante. Ed è proprio dalla voce che bisognerebbe partire, perché il cantato etereo e cristallino di Jonsi, unitamente alla fonetica islandese (tutto il disco è cantato in lingua madre, fatta eccezione per Olsen Olsen e la titletrack in cui fa la sua comparsa Vonlenska, aspetto su cui torneremo fra poco), rappresenta indiscutibilmente il valore aggiunto dell’intera produzione. Ágætis Byrjun si muove lungo le coordinate di un sogno, la voce di Jonsi, complice l’ampio utilizzo di delay e riverberi, sembra provenire da un altro mondo e per quanto, armati di buona volontà, si decidesse di ricorrere ad un dizionario/traduttore per capire il senso dei testi, ad un certo punto sarà necessario fermarsi perché in “Olsen Olsen” ed in parte di “Ágætis Byrju”n non vi è traduzione che regga: il cantato si fa puro suono e fa la sua comparsa il Vonlenska, il linguaggio immaginario ideato da Jonsi, melodia su melodia. Ágætis Byrjun è frutto di una maturata esperienza musicale e tecnica, figlia anche di un cambio di line-up che vede l’ingresso del polistrumentista, principalmente tastierista, Kjartan Sveinsson e del batterista Orri Páll Dýrason. Così mentre “Svefn-G-Englar” racconta dieci minuti di melodie celestiali e tensioni oniriche, “Viðrar Vel Til Loftárása” mette in mostra le capacità compositive degli islandesi attraverso un post-rock orchestrale intrisi di profondo romanticismo.
Ágætis Byrjun è un album duale, che si nutre di sogni e di angosce romantiche, che nel linguaggio musicale dei Sigur Rós si trasformano nello stesso senso di nostalgia per i mitici tempi passati già immortalato da Holderin. Ne sono un esempio “Ný Batterí” e “Hjartað Hamast”, sofferte e cupe ma mai disperate così come potrebbe lasciare intendere una lettura esistenzialista. Lettura che in Ágætis Byrjun difficilmente trova spazio, essendo un disco ammantato di “altro”, ovvero di quella dimensione dominata dalla fantasia e dai sogni, difficilmente confinabile entro definizioni “urbane”.
James Lamarina
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