Certe volte basta una scintilla per accendere un motore. Anche se il motore è una piazza. Anche se la scintilla è fatta di ferro, gomma e cemento. Anche se il motore, in fondo, sono i ragazzi. Ragazzi che si danno appuntamento al calar del sole, che arrivano con le scarpe slacciate e le cuffiette nelle orecchie, ragazzi che da giorni – da settimane – hanno fatto di Piazza Santa Teresa il loro piccolo Madison Square Garden sotto le stelle.
Funziona. Funziona eccome. E non serve scomodare sociologi o architetti urbani per spiegare il perché. È bastato posizionare un campo da basket regolamentare, ben illuminato, con canestri veri e linee disegnate, in un luogo simbolico del centro storico. Una piazza che per troppo tempo è stata parcheggio di scooter e contenitore di bottiglie vuote. Ora invece è viva. Vive di sport. Di relazioni. Di comunità.
Lo ha espresso con lucidità, attraverso le pagine del Quotidiano, il collega e amico Domenico Saponaro. Con la sua consueta profondità ha colto l’essenza del cambiamento: non è solo basket, è rigenerazione urbana. È presidio sociale. È uno spazio restituito alle persone.
Eppure, viene da chiedersi: perché proprio questo campo? Perché Piazza Santa Teresa è diventata il cuore pulsante del basket estivo brindisino, mentre altri playground della città – come quello del Parco Cesare Braico o del rione Minnuta – restano semi vuoti, o comunque meno frequentati?
La risposta è disarmante nella sua semplicità: la luce.
Sì, l’illuminazione. Non quella metaforica, non quella del “buon esempio”, ma proprio la luce fisica dei fari, dei proiettori, delle lampade che permettono di vedere un canestro anche a mezzanotte.
Ma forse va aggiunta una riflessione. Perché Piazza Santa Teresa non è solo un esperimento riuscito: è anche un ritorno.
Negli anni ’70 e ’80 quella stessa piazza era punto di ritrovo per almeno due generazioni di giovani. Lì si giocava a pallone, si passavano i pomeriggi, si costruivano amicizie e identità. Era una piazza viva, vissuta, attraversata ogni giorno da chi cercava un luogo per stare insieme. Poi, come spesso accade, qualcosa si è perso. Le abitudini sono cambiate, lo spazio è stato lasciato indietro.
Oggi, quella vita torna. In forma diversa – con un campo da basket, non più da calcio – ma con lo stesso spirito. E questo è forse l’aspetto più bello: non è solo un inizio. È una rinascita.
Nel mio condominio, tra gli anni Ottanta e Novanta, c’erano un campo da basket e uno da tennis. Due spazi semplici, ma decisivi. Lì ci ritrovavamo l’estate, al ritorno dal mare. Bastava posare l’asciugamano e infilare una t-shirt. Si scendeva con la pelle ancora salata, i capelli pieni di vento e le scarpe slacciate. Ma con una voglia matta di giocare.
La differenza, sempre lei: i fari. L’illuminazione non era un dettaglio tecnico, era il semaforo verde alla socialità. Si giocava fino a tardi, si imparava a stare insieme, a rispettarsi. Da quel cortile sono passati alcuni dei migliori giocatori brindisini di quella generazione. Ma anche tanti che, semplicemente, avevano bisogno di un posto dove essere se stessi.
Chi, come me, è cresciuto con il rumore della palla che rimbalzava sotto casa, sa bene cosa significhi avere un campo sempre accessibile. Non un lusso, non un capriccio: una possibilità concreta di vivere lo sport. Una seconda casa fatta di cemento, ferro e sudore.
Chi è cresciuto così, oggi guarda con occhi lucidi a Piazza Santa Teresa. Perché lì si rivede. Si rivede in quei ragazzi che si organizzano su WhatsApp per vedersi dopo cena. In quelle partite che iniziano alle 21 e finiscono senza mai guardare il cronometro. In quel campo che sembra dire a tutti: “qui potete stare, qui siete al sicuro”.
Ma allora la domanda è inevitabile: quanti altri luoghi di Brindisi potrebbero essere così, se solo fossero illuminati? Quanti campetti abbandonati, quanti playground mezzi vuoti, quanti spazi dimenticati attendono solo una scintilla?
Non servono miracoli, né progetti faraonici. Servono scelte semplici, concrete. Serve una lampada accesa, un ferro dritto, un tabellone senza crepe. Serve far capire a questi ragazzi che li stiamo guardando, che ci importa dove vanno, che vogliamo aiutarli a restare in campo, e non a vagare per strade senza destinazione.
Chi, come me, è cresciuto con il rumore del basket nelle orecchie, sa bene che certe notti non si dimenticano. E che le partite più belle non si giocano per vincere, ma per appartenere.
Piazza Santa Teresa non deve restare un’eccezione.
Deve diventare un modello.
E magari, chissà, anche il punto di partenza per una nuova mappa del gioco urbano, che accenda di passione – e di luce – ogni quartiere della città.
Perché quando un ragazzo prende un pallone e va a tirare al campetto, non sta solo giocando.
Sta scegliendo dove stare.
E, molto spesso, anche da che parte stare.
Pierpaolo Piliego
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