May 3, 2025

 

Quando l’economia stenta, il suo nome torna prepotentemente di moda. L’ultima resurrezione del britannico John Maynard Keynes risale all’inverno 2008-2009, quando il mondo stava sprofondando nell’abisso della crisi finanziaria. Governi di tutto il mondo, da Washington a Pechino, via Tokyo, Berlino e Parigi, tutti costruirono giganteschi piani di politica economica ispirati alla sua teoria. Nel bene e nel male: nove anni dopo la più grave crisi finanziaria dagli anni Trenta, la depressione è stata scongiurata, ma la maggior parte degli Stati oggi si trova con debiti pubblici quasi ingestibili. Dissacrato dagli economisti neoliberali, ammirato a sinistra per il suo interventismo statale, Keynes non ha mai smesso di essere al centro della scena. I suoi scritti saranno in grado di alimentare una nuova gioventù, ora che sono di dominio pubblico.

 

Di Keynes si è parlato in questi giorni anche per il blitz compiuto da tre persone, con indosso la tuta rossa e la maschera di Salvador Dalì ispirate alla serie Netflix «La casa di carta», che hanno piazzato un busto dell’economista a Roma, proprio accanto all’ingresso della prima storica sede della zecca italiana. A rivendicare la provocazione gli autori del film «PIIGS», uscito in sala lo scorso anno e diventato un caso al botteghino, che racconta i danni causati dalle politiche di austerity con la voce narrante di Claudio Santamaria. Il manufatto reca l’epigrafe «Nel lungo periodo siamo tutti morti», battuta con cui Keynes ironizzava sugli economisti che rassicuravano i risparmiatori sulle virtù dei mercati facendo previsioni sempre ottimistiche.

 

È stato l’economista più influente e riformista del suo secolo. Gli economisti liberali raccontano che a New York, nei bagni di un ristorante, nell’inverno del 1934 al culmine della Grande Depressione, tutti prendevano con cura i tovaglioli di carta per asciugarsi le mani, mentre John Maynard Keynes un giorno rovesciò la pila e cominciò a calpestarla con la sue scarpe misura 50, per affermare che «quel modo di usare gli asciugamani era il più efficace per stimolare l’occupazione nel settore della ristorazione». Risvegliare i consumi al punto di provocarli, crearli nel caso non esistessero, costringerli se necessario, era questo il principio guida del suo pensiero. Di contro, nel «risveglio keynesiano» i liberali vedevano una forma di spreco e di irresponsabilità.

 

Oggi però si ripensa insistentemente alla sua lezione: se da una parte è vero che l’economia privata pesa di più, o meglio, che sono gli imprenditori privati a creare più business, è vero anche che ciò accade se e quando le condizioni generali lo permettono: e accade di più quanto più le condizioni sono favorevoli. Viceversa, un’economia in crisi può trasformare la recessione in un lungo periodo di stagnazione. È accaduto negli Usa negli anni Trenta, accade in Europa in questo secondo decennio del millennio. Era stata l’America, ad esempio, a inventare il «Quantitative Easing» (iniezione di liquidità per stimolare la crescita economica) durante la Grande Recessione, in alternativa all’austerity che era stata superata (in parte fortuitamente) grazie agli investimenti per la Seconda guerra mondiale.

 

Sono i grandi investimenti pubblici a scuotere l’economia e offrire anche opportunità agli investitori privati: ciò, tuttavia, era ancor più vero nel secolo scorso, quando l’industrializzazione riversava nel sistema Paese tutti i suoi effetti (consumi interni più esportazioni). Oggi la globalizzazione rischia di favorire la crescita dei paesi poveri, il cui reddito cresce più velocemente, e spesso sottoposti a regimi dittatoriali. La riscoperta di Keynes (il ministro Tria è un neokeynesiano convinto) deve poter finalizzare l’investimento pubblico in quei settori cd. “ad alto moltiplicatore”, cioè in grado di riattivare il più possibile i consumi, anche a costo di distribuire potere d’acquisto ai lavori “semi-inutili”, riabilitando inizialmente impieghi già rubati dalla robotizzazione (portinerie, controllori dei biglietti, cassieri dei supermercati, ecc.). Dotati di maggiore capacità di spesa, questi lavoratori spenderebbero e ripagherebbero subito in tasse l’emittente pubblico, senza danni per il debito. In più, lo Stato potrebbe nel frattempo favorire la creazione di lavoro “vero” attraverso il sistema educativo, puntando sulla specializzazione dei giovani, mentre il settore privato continuerebbe a investire, esportare e alimentare la crescita del Pil, consentendo la riduzione del debito pubblico. Questa l’idea battuta in via XX Settembre.

 

La teoria economica di Keynes, che ruppe con l’ortodossia liberista del laissez-faire, cioè con l’idea che lo Stato non debba occuparsi di economia e lasciar fare al libero mercato, fu la base del New Deal inaugurato dal presidente americano Roosevelt per uscire dalla crisi iniziata nel 1929 con il crollo di Wall Street.

 

Consigliere del Principe nella delegazione britannica al Trattato di Versailles del 1919, o negoziatore degli accordi di Bretton Woods del 1944 che avrebbero creato il sistema monetario internazionale del dopoguerra, Keynes non esitò mai a metterci la faccia. Negli anni Trenta, nel bel mezzo della depressione, andava regolarmente nei grandi magazzini londinesi per arruolare casalinghe: «Compra vestiti nuovi, se vuoi che tuo marito trovi lavoro». Il commercio deve essere fatto in modo che le fabbriche possano funzionare, un principio fondamentale della rinascita keynesiana attraverso il consumo.

 

Eppure, le sue conclusioni sembravano strizzare l’occhio più al fatalismo che non a un’economia determinata dalle scelte dei suoi attori: «Quello che succede alla fine non è l’inevitabile ma l’imprevedibile», gli piaceva ricordare. In ogni caso, ripeteva allo sfinimento, è necessario cogliere l’attimo, non aspettare che il mercato faccia il libero corso nel lungo termine, regolandosi da solo. «Il lungo termine – scrisse nel 1923 – è una cattiva guida per gli affari correnti. Alla lunga siamo tutti morti». L’economia si governa nel brevissimo passo, e allo Stato spetta ciò che il settore privato non può o non sa fare. Questa preferenza per il presente, tuttavia, John Maynard Keynes la espresse ancora più apertamente sul letto di morte. «Se solo avessi bevuto più champagne», furono le ultime parole dettate dal rimpianto.

 

 

Roberto Romeo

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