Scusi, è qui la magia del Natale?
Si tratta di una domanda pleonastica che rivolgo a me stesso perché penso che molti non riuscirebbero a comprenderla. Il senso è questo: dove posso ancora trovare la poesia e la religiosità del Natale? In una parola, l’incanto? Non certo in mezzo al frastuono, al turbinio delle luci, all’acquisto compulsivo dei regali, allo scambiarsi auguri di circostanza, a regalarsi selfie davanti alle vittime predestinate di questo periodo: gli abeti.
È oramai così da tanti anni, mi direte. È il progresso. E in questa risposta riaffiora, con qualche variante, l’affermazione di Humphrey Bogart: «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non puoi farci niente! Niente».
Così è per il Natale. È come uno slittino che ha preso l’abbrivio e non riesci più a controllare. Addirittura il fenomeno si è ora esteso anche al periodo che lo precede, quello dell’Avvento. Si chiama la “Cospirazione dell’Avvento”, un movimento globale che si sta diffondendo nella Rete.
Prende le mosse dalla rivolta di cinque pastori cristiani degli Stati Uniti contro un Natale pieno di roba, di ansia e di debiti. Vengono proposti quattro principi-guida per vivere l’Avvento diversamente: prega in pienezza; spendiamo meno; dai di più; ama tutti. Non basta dire no al modo in cui tanti vivono il Natale: bisogna dire sì a un diverso modo di celebrarlo.
Idee che esistono Oltreoceano, direte. E invece no! Questa “Cospirazione dell’Avvento”, come tutte le cose “cattive” americane, è già giunta da noi. E non mi riferisco ai Supermarket che mettono in mostra alberi e addobbi natalizi fin dall’inizio di Ottobre. Ho scoperto che esistono dei “calendari” dell’Avvento che, nel periodo compreso tra le quattro domeniche precedenti il Natale, regalano ai bambini dei sacchettini uno per giorno pieni di caramelle o piccoli giochi. Come dire, un antipasto della scorpacciata dei regali “veri” che arriveranno nella notte di Natale!
Insomma il Natale, questo Natale, si sta diffondendo come un contagio per il quale non si conosce ancora il vaccino. È un circo grottesco e gira palesemente attorno ai soldi, ma al suo interno si agitano i sintomi del nostro bisogno di magia.
Qualcuno, immagino, starà arricciando il naso. Questo non è un pezzo da pubblicare su una testata laica. Sembra più una predica fatta dall’ambone. Invece insisto nel dire che questo mio sfogo è solo nostalgia del vero Natale, di quello che ci è stato scippato.
Charles Dickens ha chiamato “infrazione” il momento in cui un incantesimo decade. Diede a Scrooge, il protagonista di “Canto di Natale”, questo sentimento. Un ricco taccagno disilluso che viene redento dallo Spirito natalizio in una notte di Vigilia.
Ma questa è anche la lezione di Buzzati e di Fellini: fermarsi un attimo prima che l’incantesimo decada, fermare il tempo per rivivere l’attesa. Questo è il Natale: un senso di possibilità. Ed è già iniziato.
Bisognerebbe ritornare alle sensazioni ed emozioni dell’infanzia facendo ricorso ai ricordi. Quando, estasiati, si ammiravano i papà intenti ad allestire i presepi che toglievano spazio ad una stanza, ma in compenso ne creavano tanto di più nei cuori dei bambini.
E non importava se nella sceneggiature c’erano anacronistici laghetti alpini o improbabili castelli o neve a coprire le distese di sabbia o botteghe piene di alimenti da Supermarket. Così come non si prestava attenzione al fatto che spesso i pupi alti e grossi venivano sistemati in cima alle alture, mentre quelli piccoli si attruppavano davanti alla grotta.
Non si sospettava nemmeno che potessero esserci degli errori di prospettiva. Pertanto nessuna critica veniva mossa all’operato di chi, alla sera, dedicava ore a quel lavoro che affascinava i piccoli. E non importava se qualche pupo, in un eccesso di collaborazione, andava a pezzi. C’era sempre la colla di farina a ridare la forma a quelle miniature di gesso.
E tra i tanti personaggi quello che più incuriosiva i bambini era il guardastelle. Ma come era possibile che nella Notte Santa, in mezzo a tanto trambusto, costui se ne stesse sdraiato a contemplare le stelle? E poi proprio davanti alla grotta del Bambinello. Chi era in realtà? Un pensatore, un romantico o semplicemente uno sfaticato?
Per i bambini, anche oggi, non è cambiato nulla. Sono i loro papà e le loro mamme ad essere cambiati. Sono loro ad aver preferito gli alberi ai presepi e i doni, tanti!, alle caramelle e ai mandarini d’un tempo. Pronti a ripetere l’abbuffata di regali di lì a pochi giorni, in occasione della venuta della Befana…
Altro che il Jack Kerouac della Beat generation, cattolico fervente, che trascorse più di un Natale tra i boschi di Big Sur, cercando la Natività nella natura beata.
Come è noto, quella del presepio è una tradizione che ebbe origine nel 1223 a Greccio con San Francesco d’Assisi. Era una scena della Natività fatta di essenzialità e semplicità, riflesso del sentire e vivere del Poverello d’Assisi. Naturalmente nel tempo le rappresentazioni sono andate sempre più elaborandosi fino ad arrivare a quelle di san Gregorio Armeno dove la fantasia napoletana mette in scena statuine con personaggi dello spettacolo e Capi di Stato.
Ma va bene così. È sempre meglio dell’albero. E qui muovo una critica a chi l’albero l’ha portato fino in piazza San Pietro. Fu durante il pontificato di san Giovanni Paolo II, nel 1982, che si allestì per la prima volta un grande albero di Natale davanti alla Basilica, centro della cristianità.
Significative, al riguardo, anche le parole più recenti (13 dicembre 2014) di papa Francesco: «Anche oggi, Gesù continua a dissipare le tenebre dell’errore e del peccato, per recare all’umanità la luce della sfolgorante luce divina, di cui l’albero natalizio è segno e richiamo».
Si può essere in disaccordo con due Papi, di cui uno addirittura santo? Io lo sono, per questa faccenda degli alberi natalizi. Che, tra l’altro, costituiscono un danno per l’ambiente. E meno male che, cominciando dalla nostra città, si stanno sostituendo con finti alberi fatti di sfavillanti luci.
Anche in questo caso, però, si rischia di cadere nell’eccesso. A Napoli è stato allestito, a cura del Comune, una struttura a forma di albero alta circa 30 metri, con tanto di ascensore e terrazza panoramica a picco sul lungomare. È illuminato da un milione e trecentomila lampade a led… Ma come? Con tutti i problemi che la città presenta soprattutto nelle periferie e la truce “paranza dei bambini” di cui parla Saviano, il sindaco s’inventa questo tipo di Natale? Anche se, come afferma, non costerà nulla alla collettività, è uno schiaffo alla miseria!
Ma torniamo al problema del troppo chiasso e delle troppe luci. Mi piace riportare ancora una volta una citazione di Tagore, il grande poeta bengalese, che una sera, a bordo di una casa galleggiante sul Gange e, al lume di candela, legge un saggio di Benedetto Croce. Il vento fa spegnere la fiamma e, improvvisamente, la stanza è invasa dalla luce della luna. E Tagore scrive questi versi: «La bellezza era tutta intorno a me, / ma il lume di una candela ci separava. / Quella piccola luce impediva / alla bella, grande luce della luna di raggiungerci».
Lasciamo il Gange e veniamo alle “nostre” luci natalizie. Dopo l’ennesimo pastrocchio di questa Amministrazione ho sperato che si rinunciasse alle luminarie e all’assurda decisione di lasciarle accese fino a metà gennaio. Mi sono illuso che l’intento di un Capogruppo consiliare di devolvere i soldi delle luminarie in beneficenza potesse trovare accoglimento. E invece… I Corsi risplendono di centinaia di stelle luminose, anche se la gente, poca, sembra più gradire gli allestimenti semplici e meno costosi delle casette di piazza Vittoria. Peccato!
Come diceva Charles Bukowski, «Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei invece un dicembre a luci spente e con le persone accese…».
Anch’io al Natale consumistico, delle luci e degli alberi preferisco un Natale di luce. Ed è quello che auguro ai lettori di brundisium.net, così come a tutti i concittadini. Anche quelli che, come il guardastelle, hanno la testa rivolta al cielo senza accorgersi dei problemi seri che continuano ad affliggere la città.
Guido Giampietro
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