I MIGLIORI LIBRI DELLA NOSTRA VITA
Ove si (s)parla di libri che hanno influenzato il nostro io, illuminandolo d’immenso.
Di Gabriele D’Amelj Melodia
(II parte)
E’ arrivata l’ora di fare un maxi excursus temporale sulle mie esperienze di letture, da quando ero bambino ad oggi.
Lo farò rapidamente, sorvolando pagine e pagine, certo che di trovare sponda tra molti di voi ch hanno seguito il mio medesimo percorso.
PRIMISSIME LETTURE:
Omettiamo le favole e passiamo subito a J. Verne e a E. Salgari (quello era il Fantasy d’allora) : il mio primo Verne fu “I figli del capitano Grant”, letto in una giallognola edizione del 1930, il mio battesimo con il torinese avvenne tramite “I misteri della Jungla nera”. Poi “Il giornalino di Gianburrasca”, “Tartarino”, “Il barone di Maunchaschen”, “I ragazzi della via Paal”, “Canto di Natale”, “Piccolo mondo antico”, “Tom Sayer”, “I viaggi di Gulliver”, e l’immancabile “Cuore”, libro che compresi davvero solo quarant’anni dopo, quando lessi il gustoso “Rosso in petto un cuore m’è fiorito”, graffiante parodia deamicisiana del duo Gino & Michele.
A quindici anni scoprì i gialli e fu amore a prima vista. Per un paio di anni saccheggiai la parte della biblioteca di famiglia dedicata a questo genere. Lessi tutti quelli di A. Christie, e molti di Poe, Dickson Carr, McBain, Stanley Gardner (il padre di Perry Mason), Chandler, Conan Doyle , Simenon e altri ancora.
Poi, in un afoso pomeriggio d’ estate del 64, arrampicandomi sulla scaletta apposita, raggiunsi il più alto ripiano destro di una delle quattro librerie a vetri chiuse a chiave e, sbirciando dentro con una pila tascabile, scoprì il paradiso, anzi un eccitante inferno: “Le undicimila verghe” di Apollinaire, le poesie di Giorgio Baffo, “L’Amante di Lady Chatterley” di Lawrence, “Tropico del cancro” e “Opus pistorum” di H. Miller, “la filosofia del bodoir” e “Justine” di De Sade, “La seduzione del Minotauro” di Anais Nin, “Il giardino dei supplizi” di Mirbeau, i soneti del Belli e, infine, last but not least, il libro dei libri, il romanzo supremo, la rivelazione, “Lolita “ di V. Nabokov, nell’elegante edizione Medusa, quella in brossura ricoperta da una foderina bianca rigata di verde.
Ebbi come un’intuizione, ma finii per leggerlo per ultimo, dopo aver fatto man bassa dei libri davvero porno che avevo divorato e che avevano divorato me, lettore creativo a mia insaputa (ma già Oscar Wilde osservava che non ci sono libri scandalosi e non, ma solo libri belli e libri brutti).
Benedetta fu quella chiave di sgabuzzino che apriva anche l’anta di quella libreria!
Lolita. Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Incipit magistrale, annunciatore di insana passione e di poetico tormento, elegante nella sua delirante disperazione onirica. La storia del prof. Humbert Humbert che perde la testa, e poi la vita, per la dodicenne Lo, “ninfetta” di diabolica innocenza che incarna le bambine sexy immortalate già da un pezzo dall’osceno ma raffinato pennello di Balthus, fu pubblicato negli USA nel 1955, mentre da noi irruppe nei salotti borghesi italiani nel 1956 (erano i tempi di Gronchi, Segni e Fanfani), creando ipocrita scaldalo ma molto interesse, anche tra i critici. Quel romanzo, scritto dal prof. Vladimir Nabokov, ricco esule russo rifugiatosi nell’esilio dorato svizzero (proprio come il nobile Balthasar Klossowski, in arte Balthus ), non conteneva una sola parolaccia e non aveva scene esplicite di sesso: solo una forte carica erotica e un soggetto delicato e scabroso.
“Lolita” fece poi da battistrada ad altri novel erotici, molto più piccanti, come “I peccati di Peyton” scritto nel 1956 da Grace Metalious, e “Scandalo al sole” (A summer Place ) di Sloan Wilson, pubblicato nel 1958. Di tutti e tre questi romanzi furono tratti dei film di grande successo.
“Lolita” è un testo di grande leggibilità, scritto in uno stile classico molto peculiare, a metà tra un estetismo per nulla decadente e un realismo morbido, di narrazione filmica che si nutre di digressioni, flash back, di nostalgici effetti di dissolvenza …
Quando l’ho ripreso in mano alcuni anni fa, mi sono concesso il lusso di leggerlo ascoltando in sottofondo il terzo concerto di Rachmaninov: un felice connubio sinestetico che sottolinea l’anima tragica, profondamente russa, e del romanzo e della musica.
I LIBRI DIVORATI IN GIOVENTU’
Lettore matto ma non disperatissimo come l’illustre recanatese, per anni alternai ai testi di formazione (“Il Candido” e “Il Dizionario filosofico” di Voltaire, I saggi di Montaigne, parecchio Kafka, un po’ di Musil (molte pagine de “L’uomo senza qualità” e tutto l’agile “I turbamenti del giovane Torless” , classico bildungsroman o romanzo di formazione che contiene anche esempi di proto bullismo), Svevo, Pirandello, Mann, Gogol, Cecov, Dostoevskij, Pavese, Sartre, Marx e Marcuse, quest’ultimo meno comprensibile del francese e del tedesco), i libri freschi d’’attualità e di ribellione: “Il signore delle mosche” di Goling, “Il giovane Holden” di Salinger (anche questo romanzo di formazione) e naturalmente il re della beat generation Allen Ginsberg autore del mitico “On the road”, pubblicato in Italia nel 1957, e ancora le poesie di Ferlinghetti e quelle dei c.d. poeti catalani di protesta. Non essendoci ancora De André, noi ragazzo degli anni 60 idolatravamo J. Prévert, lo imparavamo a memoria per far colpo sulle ragazze (cet amour si violente, si fragile,si tendre, si desesperé …).
Allora andava anche di moda l’esistenzialismo e quindi ci piacevano anche Sartre, Simone de Beauvoir, Camus,J. Greco e G. Brassens. Autori impegnati e impegnativi, che aiutarono la mia generazione a superare la superficialità della prima giovinezza, a varcare quella che Conrad definì “ la linea d’ombra “.
Altri pilastri furono per me, oltre a Leopardi, Campana e Quasimodo, il più lirico dei poeti italiani del 900, Neruda, Garcia Lorca e Alberti. A quei tempi avevo conosciuto parzialmente Montale solo al liceo, salvo poi ad approfondirlo e ad apprezzarlo dopo i trent’anni. Anche l’immenso Bodini ci era sconosciuto (eppure insegnava Letteratura spagnola proprio all’Ateneo Barese, dove aveva ottenuto una cattedra straordinaria grazie all’interessamento dell’amico Mario Sansone, Preside di facoltà). Solo molto più avanti lo lessi con passione e divenne uno dei miei poeti preferiti …
Tu non conosci il Sud, le case di calce/ da cui uscivamo al sole come numeri/ dalla faccia di un dado /( Foglie di Tabacco, 45-47 )
A un certo punto, ebbi la fortuna di imbattermi in un altro gigante della letteratura mondiale che segnò la mia vita intellettuale: Marcel Proust. Appena ebbi tra le mani il primo volume della Recherche,”la strada di Swann” ( tradotto da Natalia Ginsburg ) e iniziai a leggerlo, capii subito che mi trovavo davanti ad un monumento della narrativa.
“Per molto tempo mi sono coricato presto la sera”. Questo il noto attacco del libro, che prosegue poi con dolce fluidità, e senza pause ,per ben quattro pagine fitte orfane di dialoghi, registrando solo il flusso ininterrotto dell’io narrante che, in uno straordinario, ricco descrittivismo delle cose e delle sensazioni dell’animo, racconta del suo turbamento di bambino a cui viene negato il bacio della buonanotte da parte della mamma. Un testo da leggere in apnea e in assoluto silenzio, per non perdere neppure una nota di quella straordinaria sinfonia narrativa tutta giocata sul concetto di tempo relativo , cioè della nostra coscienza, e di memoria involontaria , una teoria sicuramente influenzata dagli studi di Bergson e di Freud. Lessi anche “All’ombra delle fanciulle in fiore” (titolo assolutamente attrattivo) e mi fermai lì, perché è quasi impossibile conoscere tutti e sette i libri della Ricerca, che in tutto comprende più di tremila pagine.
Oggi del resto è molto arduo leggere Proust, in queste nostre dannate case violentate dall’ottuso elettrodomestico chiamato TV e dai molesti rumori dei vicini, a meno di insonorizzare la stanza – rifugio di lettura con dei fogli di sughero, proprio come fece il povero, malaticcio Marcel nel suo appartamentone parigino … Oppure bisognerebbe rifugiarsi in un bosco, per degustare la lettura in santa pace. E’ quello che faceva H. Miller, come lui stesso ci racconta in quel denso, sorprendente testo autobiografico che è “ I libri nella mia vita “ ( Adelphi ). H. Miller aveva una cultura mostruosa e aveva letto più di un migliaio di libri, di cui molti europei. Sorprendente per uno ricordato solo per i suoi libri pornografici!
Spesso si sente dire : questo è il libro che mi ha cambiato la vita. Non credo sia così: almeno per me, sono tutti i libri che ho letto in gioventù ad avermi formato e quindi ad aver cambiato la mia vita.
E’ giunto il momento di spersonalizzare un po’ la mia biblioteca di riferimento, quindi da ora in avanti procediamo per epoche storiche:
ANNI ‘ 70
Cosa si leggeva in quegli anni? Sicuramente Moravia, Bevilacqua, Cassola, Bassani, Parise e il sopravvalutato Tommasi da Lampedusa col suo “Gattopardo” che sicuramente fruì della bella versione cinematografica di Luchino Visconti. Tutti autori che mi lasciavano abbastanza “indifferente”, eccetto Moravia che seguivo anche sull’Espresso (allora c’era la bella edizione a foglio di giornale) e che mi colpì molto coi suoi giovanili, poco noti, “Racconti surrealistici e satirici”. Ma tutto il resto di quella prosa, che il sulfureo Alberto Savinio aveva ironicamente etichettato “Aieouismo”, non portava nulla di nuovo, era stantia, polverosa.
Molto meglio, almeno per me, l’Hesse di “Siddartha” e “Narciso e Boccadoro”, il Pasolini delle poesie e delle “donne di Roma”, o l’eccentrico dandy di Voghera Alberto Arbasino di “Fratelli d’Italia” o di “Anonimo lombardo”, ostico ma affascinante e stimolante, gli originalissimi Luigi Malerba e Giorgio Manganelli, autore di fantasiose “Centurie” (1979), ossia cento miniromanzi di 45 righe l’uno (sembrava un record, finché molti anni dopo, il messicano Augusto Monterroso scrisse e pubblicò il racconto più breve di sempre, “Il Dinosauro” – Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.).
Nel 1976, tutti i giovani corsero in libreria a comprare il libro-scandalo del momento, “Porci con le ali”, edito dalla rivoluzionaria casa ed. Savelli, ora scomparsa, scritto dal duo M. Lombardo Radice – L. Ravera, nella storia Rocco e Antonia.
In maniera autonoma ero arrivato per conto mio a quanto predicavano i ribelli del c.d.”Gruppo 63″ formato da Nanni Balestrini, Angelo Guglielmi, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco: basta con i soliti polpettoni, bisogna ricercare il “piacere del testo” ( felice frase – slogan assunta da un saggio, invero tortuoso, di Roland Barthes ).
Mi ricreai scoprendo la lucida prosa di Dino Buzzati (“La boutique del mistero”, “Il deserto dei tartari”, “Un amore”), di Leonardo Sciascia e di Italo Calvino, autentico mostro della narrativa e della saggistica italica, il quale dopo i successi delle “Fiabe”, dei “Nostri antenati”, delle “Cosmicomiche” e delle “Città invisibili”, proprio sul finire del decennio, nel 79, tirò fuori dal cilindro uno dei testi più rivoluzionari della narrativa d’autore.
Sto parlando de “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, provocatorio esempio di “sperimentalismo avanzato” (ispirato da Robbe Grillet, il principale esponente della c.s. école du regard o Nouveau roman), un romanzo annunciato, progettato ma che poi non inizia mai, un’ironica bizzarria che contribuì a dare una spallata definitiva al novel tradizionale e un po’ borghese.
Ma in quegli anni non disdegnai incursioni tra le stralunate pagine di Achille Campanile (autore molto amato da Eco), assaporando anche l’umorismo cristallino di Wodhouse (irresistibile “Il Castello di Blauding”), del ceco Hasek (“Le vicende del bravo soldato Svejk”) e dell’allora giovane Stefano Benni, mio coetaneo, (il mitico “Bar Sport” è del 1976, poi seguirono “la tribù di Moro Seduto”, “Non siamo stato noi” ecc. ).
In quel periodo sollevai il mio spirito col variopinto, creativo, rapinoso capolavoro di Gabo Garcia Marquez. I “Cent’anni di solitudine” inventarono una lingua, un canone, un poetico racconto sempre in bilico tra sogno e realtà. Successo planetario, tanto che ancora non si è capito bene se il famoso pugno assestato nell’occhio sinistro del povero Gabo dal suo amico peruviano Vargas Llosa, sia imputabile alla gelosia per il boom del suo libro o alla gelosia per una fascinosa bionda …
A fine decennio incontrai anche C. Bukowski, classico autore maledetto, dotato di una certa originalità e di una singolare (auto)ironia, di cui lessi “Post Office” e “Storie di ordinaria follia”.
Gabriele D’ Amelj Melodia
(continua)
I migliori libri della nostra vita. I Parte. Di Gabriele D’Amelj Melodia
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