Non si interrompe una emozione
E invece l’emozione s’interruppe la domenica dell’11 giugno 1995 allorquando, tra i dodici referendum proposti dal Partito Radicale veniva posto agli Italiani il seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 8, comma 3, secondo periodo limitatamente alle parole “Per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. È consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell’opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno” della legge 6 agosto 1990, n. 185 S.O. recante il titolo “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”?».
Un quesito che, tradotto dal burocratese in italiano, chiedeva al popolo: «Vi sta bene che i film programmati in televisione siano interrotti dagli spot pubblicitari?». E il popolo sovrano (ma quando…?), col 55,7% dei “no” contro il 44,3% dei “sì”, rispose favorevolmente agli spot. E fu la fine della buona televisione e l’inizio del rimbambimento davanti a schermi da scompariva, oltre alla cultura, anche il piacere del semplice intrattenimento.
A ideare il fortunato slogan contro la pubblicità era stato nientemeno che Federico Fellini, il Maestro che però, in questa circostanza, si comportò in maniera ondivaga, se non proprio contraddittoria. Infatti, dopo avere demonizzato gli spot, non disdegnò di farne parte egli stesso, insieme a tanti altri nomi altisonanti del cinema quali Age & Scarpelli, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Totò, Macario, Vittorio Gassman, Dario Fo, Eduardo…
Che poi Fellini (deceduto nel 1993) non fu nemmeno presente alla vittoria referendaria dei “no”. E, conseguentemente, a quella di Silvio Berlusconi, l’uomo della televisione commerciale, quello che aveva tutto l’interesse a che la battaglia degli spot andasse avanti e, alla fine, fosse vinta.
Ma perché il popolo tradì il cinema, dando il via a quel nefasto spezzettamento della visione che ha decretato, se non la morte, la quasi-fine di una cinematografia fino a quel momento tra le migliori del mondo?
Ed io, sì proprio io, come mi comportai in quella circostanza? Cioè nel momento storico in cui Pannella sfornava più referendum dei biscotti del Mulino Bianco, e i quesiti posti avevano tutta l’aria di trabocchetti con quel “no” che significava “sì” e il “sì” che aveva valore di “no”. Francamente non lo ricordo.
È probabile che a farmi propendere per il “no” sia stata l’egoistica considerazione che, con qualche piccola interruzione, oltre a quella naturale tra primo e secondo tempo, avrei potuto sciropparmi tanti film che, programmati sulle tv private, mi avrebbero tolto il fastidio e… l’onere di andarli a visionare nelle sale cinematografiche.
A farmi sbilanciare per gli spot dovette essere anche il ricordo dei film che, in occasione della settembrina Fiera del Levante, dalla Rai venivano programmati agratis per la zona della Puglia. Gustarsi, alla fine degli anni Sessanta, delle pellicole comodamente acciambellati sulle poltrone di casa era, a quei tempi, un piacere povero e ricco al tempo stesso.
E poi, e poi ad assestare il colpo definitivo dovette essere Carosello, con quei trenta-secondi-trenta di show, più che di pubblicità. Altro che bambini! Erano i grandi a godersi quegli spettacoli scritti da autori di grido (ivi compreso il nostro Maestro che firmava “emozioni” per Campari, Barilla, Banca di Roma…) e interpretati dai grandi attori dello schermo e del teatro.
E allora dovetti dirmi: favoriamo questi mini spot che, se vanno contro il piacere di uno spettacolo privo di interruzioni, offrono in compenso la possibilità, in quel breve lasso di tempo, di fare una capatina in bagno o in cucina.
Chi avrebbe mai potuto immaginare che i vituperati stacchetti – oltre a tagliuzzare con le lucide cesoie di una moderna Àtropo i fili di tante storie – si sarebbero impossessati, grazie ad intervalli ripetitivi e sempre più lunghi, del nostro tempo? Ecco quello che avevamo fatto. Avevamo barattato con una pubblicità sempre più lontana da quella intelligente di Carosello, la nostra capacità di libero arbitrio e aperta la prima breccia nella corazza di quella che, molti anni dopo, si sarebbe chiamata privacy!
La vittoria di Berlusconi e degli altri padroni delle tv commerciali aveva altresì inferto un colpo mortale anche alla tv pubblica che, per non soccombere, si votò anch’essa agli spot pubblicitari. Ma se la pubblicità aveva una giustificazione per le televisioni private che grazie ad essa potevano sostenersi, per quale motivo la tv di Stato, beneficiaria di un canone (ora perfino in bolletta), doveva attingere anche a questa fonte? All’ingordigia dei partiti politici, non tanto occulti padroni del Servizio pubblico, non c’è mai stato un limite.
Almeno gli introiti della pubblicità servissero a migliorare i palinsesti. E invece vanno a incrementare una pletora di funzionari nullafacenti, un esercito di giornalisti per lo più asserviti ai padroni e le tasche di conduttori e conduttrici di “ospitate” vergognose.
Senza tale anomalia le cose sarebbero andate sicuramente meglio. Nel senso che la Rai avrebbe continuato ad offrire servizi e prodotti privi dello strazio delle interruzioni, e le televisioni commerciali (nomen omen) avrebbero avuto il loro pubblico di bocca buona.
Aveva ragione lo scrittore Norman Douglas quando, in Vento del Sud, diceva che «si possono capire gli ideali di una nazione dalla sua pubblicità»!
Non rimane che ammettere che ci meritiamo i tormentoni come quello delle poltrone… Anche se non capisco – non essendo un pubblicitario – se l’ossessiva ripetizione di certi spot giovino veramente ai committenti, visto che, per quanto mi riguarda, più mi viene sbattuto sul muso un “consiglio per gli acquisti” e con maggiore determinazione cancello dalla mente quel prodotto. O forse “credo” di cancellare perché a spingermi ad acquistarlo sembra non sia la mia volontà, ma il messaggio subliminale nascosto in ciascuna offerta.
Fino a un certo punto, però. Perché se ho in uggia un Paese, per esempio (solo per esempio) la Francia, non ci sono messaggi così forti da fare passare in secondo piano l’ipocrita buonismo o, peggio, le offese gratuite. Così come, sul piano nazionale, per il sottoscritto ha sempre la meglio il prodotto a chilometro zero. Ma, mi rendo conto che si tratta pur sempre di rivalse statisticamente ininfluenti.
Purtroppo la realtà è un’altra. La pubblicità che prima si limitava alle pause delle partite in tv, ai manifesti in occasione dei saldi stagionali e alle pagine interne dei giornali, è ora diventata ossessiva con quella distribuzione ad personam effettuata per le strade, con l’oscuramento dei parabrezza delle auto e l’intasamento delle cassette postali quando quelle ad hoc si dimostrano insufficienti. E tutto ciò avviene a scapito della verità e a vantaggio della finzione.
E non è da pensare che possa esserci un’inversione di tendenza, se anche i telefonini stanno diventano un ottimo veicolo di propaganda. Allora, cosa ci rimane da fare?
Escludendo che si possa riproporre un altro referendum abrogativo visti i problemi più seri che ci sono sul tappeto, non rimane che adottare l’espediente cui è ricorso un mio amico. Quello di registrare le trasmissioni d’interesse per poi vedersele comodamente e purgate delle decine e decine di interruzioni. D’altro canto, siamo o non un popolo di furbi?
Guido Giampietro
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