A quel messaggino avrei potuto rispondere con tutta calma perché nessuno sarebbe stato in grado di conoscere l’ora della mia lettura. Invece, preso dalla fregola, risposi a tamburo battente. Così il tempo che non utilizzai prima lo impiegai, dopo, per smussare gli spigoli di una frase costruita con la malta della fretta.
Mi consola ˗ solo in parte, però ˗ il pensiero che incidenti di questo tipo siano abbastanza frequenti ai giorni d’oggi vissuti all’insegna dell’alta velocità. L’ultimo, in ordine di tempo, riguarda l’irriflessiva invettiva di Matteo Renzi contro i «burocrati di Bruxelles». Un’uscita non troppo meditata che gli ha procurato la rispostaccia di Juncker, il presidente della Commissione europea.
Così come c’è sempre la fretta nella rapidità con cui si varano (e cambiano) i programmi politici. Nei botta e risposta in tempo reale, nelle mail ˗ anzi, jumbo-mail ˗ spedite anche quando si è in movimento (salvo, un istante dopo, a pentirsi di quell’“invio” non sufficientemente ponzato), nel fastfood e nei ritmi infernali della musica moderna.
Certo, quando tutto va per il meglio è semplice essere pazienti. Il vero test sulla pazienza avviene quando i nostri diritti sono violati, quando ˗ ad esempio ˗ una macchina ci taglia la strada, quando veniamo trattati ingiustamente, quando perdiamo del tempo prezioso davanti a uno sportello pubblico, quando attendiamo che termini lo sciopero dei lavoratori dei trasporti.
Alcuni pensano che hanno tutto il diritto di perdere la pazienza quando vengono provocati e in tal caso l’impazienza viene interpretata come una santa rabbia. Ma non è così o, quantomeno, non sempre è così.
Torna perciò d’attualità la raccomandazione di Franz Kafka: «Abbiate pazienza!». Per meglio esplicitare il suo pensiero così scriveva lo scrittore praghese negli “Aforismi”: «Ci sono due peccati capitali dell’uomo, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e inerzia. A causa dell’impazienza sono stati cacciati dal paradiso, a causa dell’inerzia non tornano». Poi ha un ripensamento e si corregge: «No, il peccato capitale è uno solo: l’impazienza».
Non aspettare il tempo necessario, ma reagire d’impulso, bruciare ogni esperienza in un attimo è un vizio tipico della nostra epoca e per questo l’elogio del suo opposto, la pazienza, suona particolarmente opportuno. Forse anche perché in controtendenza.
Dunque un invito a rallentare, se non proprio a fermarsi, nel momento in cui l’accelerazione quotidiana sta amplificando il problema dell’ansia oramai causa prima della nevrosi.
Mentre la pazienza è la giusta via di mezzo tra l’impazienza e l’apatia. È il tempo naturale che occorre perché le esperienze di vita vengano elaborate e fatte proprie, prima d’essere condivise con gli altri. Insomma l’Homo sapiens, per essere tale, dev’essere prima di tutto Homo patiens.
In questo contesto i social network rappresentano quello che più è in antitesi con il concetto di pazienza. Qui, infatti, la mano giunge prima del pensiero, l’amicizia nasce prima della conoscenza (o addirittura prescinde dalla conoscenza), la voglia dell’apparire ha la meglio sulla competenza maturata con lo studio e la riflessione.
Questo spiega anche il dilagante affermarsi degli opinionisti radiotelevisivi. Costoro trattano gli argomenti “a naso” e ne sostengono la validità non con la forza della logica, ma con quella della sopraffazione verbale che spesso diventa alterco, se non proprio scontro fisico.
La pazienza, oltre ad essere una virtù dell’uomo comune, ha una sua collocazione anche nel campo dell’arte. Un grande poeta francese, Philippe Jaccottet, individua nell’arte di Giorgio Morandi una luce «ad un tempo interiore e distante» che potrebbe definirsi come un’«infinita pazienza». Ed è proprio questo il segreto dell’arte. Non c’è arte, infatti, senza una lenta interiorizzazione che precede il momento della creazione.
Allo stesso modo avviene in letteratura. Il poeta e lo scrittore curano con pazienza e amore un’idea che solo il tempo farà maturare, presentandola spesso completamente modificata rispetto a quella originale. Può apparire strano, ma anche le pochissime parole di una poesia haiku mal si conciliano con la fretta e l’improvvisazione.
Così è da sfatare l’opinione secondo la quale la pazienza (derivante dal greco pathos o pathein, nel significato di “passione” o “patire”) va spesso confusa con la sopportazione malinconica. Niente di passivo, insomma.
L’eroe che più di tutti (anche dello stesso patriarca Giobbe) ha manifestato pazienza è sicuramente Ulisse. Più dell’astuzia, più della forza, più del coraggio è la pazienza che gli consente, dopo le mirabili vicissitudini di oltre un ventennio di peregrinazioni, di tornare nella sua Itaca.
E anche qui non si lascia prendere dall’impazienza. Dapprima osserva lo scempio che i Proci hanno fatto della sua reggia e il dileggio riservato al figlio Telemaco e ai fedeli servitori e, quando ha bene in mente il piano della vendetta, parte alla riconquista di Penelope e della sua proprietà. La pazienza, in questo modo, diventa una forma di resistenza e di coraggio: il coraggio di tollerare il dolore, la sopraffazione, la protervia per un obiettivo superiore.
Anche nella filosofia buddhista la pazienza trova una ben precisa collocazione. È una delle sei perfezioni previste nella pratica del discepolo, oltre alla generosità, al comportamento morale, alla perseveranza, alla concentrazione meditativa e alla saggezza.
Certo, come recita il proverbio, anche la pazienza ha un limite (lo stesso Giobbe, a un certo punto, si mostrò insofferente), cioè non è fatta per tempi molto dilatati, pena la sua trasformazione in passività, indolenza, accidia.
Così come la pazienza non è fatta per i giovani che non possono aspettare, che hanno fame di futuro. La diaspora dei cervelli e delle braccia dei nostri giorni, oltre ad essere la conseguenza prima della crisi in atto, risponde anche alla necessità di andare via alla scoperta di realtà nuove, incontro ad esperienze diverse.
In tal senso è assolutamente attuale il pensiero che Natalia Ginzburg esplicita in “Caro Michele”: «È vero che più passano gli anni e più si accrescono le risorse della nostra pazienza. Sono le nostre sole risorse che si accrescono. Tutte le altre tendono a prosciugarsi».
Insomma se vogliamo proteggerci da attacchi esterni (e Dio solo sa quanti ve ne siano in questo momento) dobbiamo indossare l’abito della pazienza.
Guido Giampietro
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