L’estate, diceva Claudio Magris (Naufraghi d’agosto, come pesci in mare), «è una stagione da posizione orizzontale, cullati dalle onde o ascoltando il loro rompersi sulla riva confuso con l’incessante canto delle cicale…».
Dunque una “posizione orizzontale”, da mare, preferibilmente sotto un ombrellone, con accanto ˗ ghiacciati al punto giusto ˗ un Mojito, o un Margarita, o un Caipiroska alla fragola.
Ma può essere anche una posizione orizzontale da campagna, cullati da una amaca stesa tra due ulivi argentati, mentre le cicale (sempre loro!) intonano struggenti canzoni d’amore.
O da montagna, con le spalle inumidite da una erbetta-moquette e gli occhi a inseguire le nuvole in un cielo sgombro da veleni.
Ma in città? Non solo non è consentita la posizione orizzontale ai (molti) dannati rimasti a lavorare o a guardare alla TV l’estate degli altri, ma quella verticale (propria di chi sgambetta sull’asfalto liquido) si tramuta ˗ per ripicca? ˗ nell’(ab)uso di abbigliamenti poco consoni al rispetto che si deve al resto dell’umanità.
Per questo motivo in città, d’estate, c’è una preoccupante caduta di stile. Meglio: si assiste al trionfo della maleducazione e della cafonaggine.
Non che la volgarità riguardi, come un segno zodiacale, soltanto luglio e agosto. Si può essere cafoni anche a gennaio e a ottobre (e in effetti lo si è per altri motivi). Però sole, vita all’aria aperta, movida notturna, voglia di divertirsi e alzare il volume in senso lato, trovano proprio in questo periodo dell’anno la loro “alta stagione” zoticona e trasversale, in quanto non risparmia nessuna categoria.
A Brindisi è stato il Presidente del Tribunale, Francesco Giardino, a lanciare una campagna fustigatrice (probabilmente unica in Italia) all’indirizzo di quanti ˗ addetti ai lavori e occasionali visitatori ˗ varcano la soglia del Palazzo. Un elenco particolareggiato (nel quale spiccano minigonne, hot shorts, bermuda, ciabattine infradito e bretelline reggiseno ammiccanti da vistosi scolli asimmetrici), regolarmente protocollato e affisso laddove sostano i vigilanti del servizio di portineria, richiama all’uso di un abbigliamento in linea con l’austerità delle aule di giustizia.
Non metto minimamente in dubbio la bontà (e la necessità) di un simile provvedimento che però offre il fianco a critiche circa la sua applicabilità. Demandare infatti ai vigilanti il compito di ergersi a censori dei costumi appare quanto meno arduo.
E pensare che le estati, da che mondo è mondo, sono state sempre uguali (a parte le bombe d’acqua di oggi).
Ma venti-trenta anni fa, erano pochi quelli che vestivano scompostamente e, per metterli in riga, non c’era bisogno di editti e sanzioni, ad eccezione di quelle comminate dai parroci. Questi, infatti, per l’ingresso nelle chiese, esigevano che le spalle delle donne fossero coperte almeno da uno scialle. Per le spose, invece, non era sufficiente nemmeno quello!
La possibilità che l’abbigliamento possa provocare anche solo imbarazzo in chi ci sta vicino configura, già di per sé, un caso di maleducazione. E quando l’esempio viene dall’alto ˗ mi riferisco a politici e vip dello spettacolo ˗ la cafonaggine è ancora più imperdonabile perché camuffata da apparenze per bene, salvo poi rivelarsi “senza rete” nel modo di parlare e di proporsi.
Ma dove la maleducazione dilaga è tra la gente comune, non fosse altro che per una questione di numero.
Giusto per prevenire situazioni di potenziale cafonaggine quotidiana provo a stendere un decalogo-memorandum di base. Quasi certamente inutile alla redenzione degli incalliti buzzurri perché le “sconvenienze” sono come i doveri morali che ci suggerisce la coscienza: si avvertono da parte di tutti, ma poi ci si comporta in maniera diametralmente opposta.
E, per favore, non si prenda ad esempio la massima di vita di Hemingway: «Per il momento, riguardo alla morale, so solo che è morale ciò che mi fa sentir bene e immorale ciò che mi fa sentir male dopo che l’ho fatto».
All’inizio della lista di ciò che non va fatto metto la moda del conversare inforcando maxi occhiali con lenti scure o a specchio. Dico subito che fa molto cartello di Medellin… Anche se gli occhi non sono così splendenti come quelli di Lesbia, ai quali Catullo affibbiò l’appellativo di boopis (“occhi di giovenca”), è da persone educate lasciarli vedere, limitando l’uso dei vetri scuri ai casi di conclamata congiuntivite o in occasione delle eclissi di sole.
E se è vero che l’estate si traduce in una esplosione di luce e colori non è detto che si debba esagerare. È opportuno, perciò, rinunciare a un abbigliamento a base di turchese, fucsia, giallo acido, verde ramarro; ad acconciature a colpi di mesce color arcobaleno dopo un temporale estivo; ad abbronzature tendenti al cuoio scuro.
Questi accorgimenti ˗ presi singolarmente o, peggio, tutti insieme ˗ non sono indici di alta raffinatezza, checché ne dicano i giornali da scoop.
Tra le negatività dell’estate un posto particolare va poi riservato agli spregiudicati raccontatori di barzellette che, con allusioni e turpiloquio, abbassano paurosamente l’asticella del buon gusto. Ma non solo a loro. Ché gli scomposti e ridanciani commenti degli occasionali ascoltatori non fanno che accrescere l’imbarazzo di chi, incolpevolmente, si trova nel raggio uditivo di queste sconcezze verbali.
Naturalmente deambulare nel fuori spiaggia in costume da bagno o con asciugamani-pareo, non regala un’allure elegante.
Le nostre spiagge sono oramai lontane dalla città e tuttavia non è raro imbattersi in qualche turista (per giunta di età avanzata) che si sente in obbligo di mostrare le proprie grazie. Della canottiera sarebbe anche inutile parlare. Rilanciata da Bossi (ex Segretario politico, ex Ministro della Repubblica, ecc.) come divisa padana, oggi è molto praticata da estremisti del muscolo tatuato.
E che dire dei barbecue all’aperto? Amato da chi ce l’ha, odiato dal condominio (specialmente dai vegetariani e dai vegani) in relazione all’affumicatura sistematica del circondario. Se proprio non si vuole andare sui piatti freddi, quantomeno bisognerebbe adottare tutte le precauzioni per non creare problemi ai vicini.
Dove però si registra il picco più alto della cafonaggine è nel ricorso sproporzionato ed esibito del rumore: da quello degli squilli dei telefonini e delle conversazioni private offerte a costo zero a un pubblico in tutt’altre faccende affaccendato; a quello delle radio delle auto con il volume a palla e degli impianti di amplificazione dei locali pubblici, al massimo dei decibel; alle voci assordanti che gareggiano a superarsi negli angusti spazi dei ristoranti; e via di questo passo.
Ecco, tutto questo è cafonaggine e buona parte di questa è addebitabile proprio all’estate.
Un po’ perché il caldo e l’aria di vacanza (anche quella “forzata” in città) rallentano i freni inibitori, e un po’ perché nelle altre stagioni ci facciamo notare di meno.
Credo che non farebbe male riflettere su questo aforisma di Oscar Wilde: «Ci sono soltanto due cose inspiegabili: la morte e la volgarità».
E se alla morte, come si suole dire, non c’è rimedio, per sconfiggere la volgarità basta solo la buona volontà.
Guido Giampietro
No Comments