La morte di Carlo Legrottaglie, brigadiere capo dei Carabinieri, ucciso in un conflitto a fuoco proprio l’ultimo giorno di servizio, sconvolge per la violenza, ma ferisce ancor più per l’assurdità del momento: un attimo prima della pensione, un respiro prima della quiete.
Quel giorno avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova stagione, dopo una vita trascorsa a presidiare strade, a rispondere a chiamate nel cuore della notte, a portare la divisa come un’estensione della pelle, anche fuori servizio. E invece, proprio in quel giorno, lo Stato che Carlo ha servito con disciplina e lealtà lo ha visto cadere. Colpito mentre ancora faceva ciò che aveva giurato: proteggere.
Non è retorica. È la fotografia amara di un Paese che continua a mandare i propri uomini e le proprie donne in prima linea, spesso nel silenzio, lontano dai riflettori. Carlo non era un eroe da copertina. Era uno dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno, nei quartieri difficili, nelle caserme dimenticate, negli angoli dove la sicurezza resiste solo grazie alla loro presenza, mettono il proprio corpo tra il caos e l’ordine.
Una morte così, in un giorno che doveva essere di festa, ci impone domande. Ci obbliga a guardare in faccia le zone d’ombra del nostro sistema: la violenza che rialza la testa, il crimine che continua a sparare, la fragilità di una legalità troppo spesso affidata al coraggio individuale. Ci chiede, senza infingimenti, cosa stiamo facendo – davvero – per tutelare chi ci tutela.
Carlo Legrottaglie se ne va lasciando dietro di sé una parabola tragica che, nella sua crudezza, rivela una verità non più eludibile: chi sceglie di servire lo Stato, di stare dalla parte della legalità sempre e comunque, non è mai davvero al sicuro. E questo non può essere accettato come inevitabile.
Alla famiglia di Carlo, ai suoi colleghi, a chi ha condiviso con lui la vita dentro e fuori la caserma, va la vicinanza di tutti. Ma a noi, che restiamo, tocca qualcosa di più del cordoglio: tocca l’onere della memoria attiva. E il dovere di chiederci, con onestà, se quel sacrificio poteva – doveva – essere evitato.
L’ultimo giorno di Carlo ci costringe a riflettere sul primo dei nostri doveri: essere all’altezza di chi ha servito lo Stato fino all’estremo. E cambiare registro, sul serio. Perché legalità e sicurezza non possono essere solo reazione, risposta d’emergenza dopo gli atti malavitosi, dopo le tragedie. La giustizia non può ridursi – quando va bene – all’efficienza del dopo.
Sul territorio, la legalità ha volti ben riconoscibili. È rappresentata con autorevolezza e impegno dal Prefetto, dal Questore, dai Comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, da tutti gli operatori delle forze dell’ordine, dai magistrati che ogni giorno garantiscono l’equilibrio tra repressione e giustizia. Ma a queste figure, a queste istituzioni, deve essere dato di più: meno chiacchiere, più strumenti, più mezzi, più libertà operativa. Devono essere messi in grado di incidere davvero, con tempestività e forza.
Perché è chiaro a tutti: la criminalità ha alzato il tiro.
In una provincia dove persino il pizzo, che pareva scomparso, torna a fare capolino tra le saracinesche degli esercenti, la legalità deve tornare a essere presidio quotidiano, prevenzione concreta, messaggio inequivocabile.
Deve anticipare, non inseguire. Agire, non rincorrere. Intervenire prima che si spari. Altrimenti continueremo a commemorare uomini come Carlo, quando ormai è troppo tardi.
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