Le lucciole? Per i ragazzi (che non le hanno mai conosciute) sono le lucette degli accendini e degli smartphone che, nelle notti d’estate, segnano il tempo durante i megaconcerti nelle piazze e negli stadi. Per i meno giovani, invece, vengono associate alle signorine dell’Est (anche in questo particolare settore è sparito il prodotto nazionale, le “Gradisca” di felliniana memoria…) che stazionano davanti ai falò nelle notti d’inverno.
Ma le lucciole sono anche i coleotteri che accendono le lanternine a giugno, in coincidenza con l’arrivo dell’estate. Ahimè, una specie in via d’estinzione. Anzi, no. A sentire una notizia degli ultimi giorni che parla dell’inaspettata ricomparsa dei simpatici lumicini volanti nelle campagne del bresciano.
Ma è poi tanto importante questa notizia da farla assurgere agli onori della cronaca? Ritengo di sì perché questo ritorno ha in sé molti significati e soprattutto ci ricorda come è stata la nostra campagna fino a qualche decennio fa.
Prova ne è che il solo titolo dell’articolo ha fatto scattare in me il misterioso congegno degli amarcord. E d’un colpo mi sono trovato nella condizione di Proust allorché portò alle labbra un cucchiaino di tè in cui aveva inzuppato un pezzetto di Petites Madeleins. Quel sorso, misto alle briciole di biscotto, gli procurò “un piacere delizioso… isolato”, rendendogli “indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria…”.
Bé, non sono caduto in trance come Proust, ma ci sono andato vicino. Mi sono rivisto, bambino, nella campagna degli zii di Mesagne dove, terminato l’anno scolastico, venivo “spedito” dai miei che mostravano di avere, a quel tempo, le stesse lodevoli intenzioni dei genitori di oggi in fatto di premio per la promozione. Con la differenza che oggi i pargoli vengono messi su un aereo, destinazione estero.
Confesso che il buio della campagna m’intimoriva un po’. I rami degli alberi sui quali al mattino m’inerpicavo come uno scoiattolo alla ricerca di nidi, di notte ˗ sotto i freddi raggi della luna ˗ mi parevano scheletriche braccia pronte a ghermire. Lo stesso canto dei grilli, monotono e ossessivo, somigliava a un lugubre mantra. E le lucine svolazzanti delle lucciole mi davano la sensazione di migliaia di occhietti ch’erano lì per spiarmi. Una specie di Grande Fratello ante litteram. Ragione per cui preferivo restare accanto agli adulti che, nella pace notturna, srotolavano la matassa dei fatti grandi e piccoli delle loro vite.
Finché la più anziana delle comari, vincendo i miei timori, non me le fece vedere da vicino le lucciole. Non solo. Mi disse che se ne avessi acchiappata una e l’avessi messa sotto un bicchiere, la mattina dopo vi avrei trovato una monetina. Però l’idea d’imprigionarle non mi garbava e così mi limitavo a prenderle e, dopo aver rimirato per un po’ la luce fuoriuscita dall’incavo delle mani, le lasciavo andare. In questo modo, senza saperlo, non turbai la loro stagione degli amori, visto che l’emissione luminosa è una funzione che si manifesta nella fase di corteggiamento precedente l’accoppiamento.
Da quel tempo non mi sono più imbattuto nelle lucciole. E come avrei potuto, visto che, dopo le forzate villeggiature mesagnesi, sono diventato un cittadino stanziale? E le mie vacanze hanno prediletto le spiagge del Salento e della Grecia. Ne ho sentito parlare, però, perché sulle lucciole si è detto tanto.
Così Tiziano Tiziani (Un altro giro di giostra) scriveva: «Non sarebbe bello a un bambino, raccontargli delle favole su questo bruco (luminoso)? Il mondo gli si anima, no? La natura gli si anima, la vita gli si arricchisce, vive in più dimensioni… La sera al bambino gli danno a mangiare, lo mettono un po’ davanti alla televisione e poi a letto, perché questi vogliono vedere un film, quelli vogliono andare dagli amici. Sarebbe così semplice dire “Fermi tutti. Stasera si va a vedere le lucciole”…».
E, prima ancora, così parlava la lucciola di Trilussa dopo aver inavvertitamente investito nel buio un rospo: «… Scusa tanto, / ma la luce ch’io porto nu’ la vedo / perché ce l’ho de dietro: e, in questo, credo / che c’è stato uno sbajo ne l’impianto. / Io dove passo illumino: però / se rischiaro la strada che ho già fatta / non distinguo la strada che farò…». «… Capisco, ˗ disse er rospo ˗ rappresenti / la Civirtà moderna / che per illuminà chi sta all’oscuro / ogni tantino dà la testa ar muro…».
Le lucciole, come si vede, da sempre fanno parte della nostra cultura, anche se i nostri bambini, indaffarati come sono a spostare con le dita le immagini sui tablet, non si sognerebbero più di metterle sotto un bicchiere (o sotto un mortaio capovolto, per trovarsele trasformate in perle…).
Ma nel passato le cose non andavano così. In Sicilia la lucciola era detta la candelina del pastore (cannilicchia di picuraru) perché illuminava le notti dei pascoli.
Ed essendo la famiglia delle lucciole distribuita in tutti i Paesi a clima tropicale o temperato, ogni popolo aveva, o ancora ha, proverbi e usanze. Dai Boscimani del Kalahari, che ne raccolgono una ventina per imprigionarle (cambiano le latitudini, ma il destino delle povere lucciole è sempre lo stesso: fornire luce gratis) in zucche essiccate che usano come lampade magiche; alle donne amerinde che se ne servono per adornarsi i capelli.
Ma perché erano sparite e ora stanno tornando? Per la stessa ragione per la quale negli ultimi anni c’è stata una flessione nel flusso migratorio delle rondini. E nella consistenza delle colonie di api. Tutte specie che rischiano di estinguersi per colpa di una agricoltura ad alto impatto ambientale. Una agricoltura che avvelena la ricca biodiversità dei campi e delle aree verdi.
Ritornano, dunque, nelle zone dove si pratica un’agricoltura più consapevole e compatibile con l’ambiente. Ma è sufficiente che ci sia una zona incolta, un po’ di genuina selvaticità ed ecco ricreato il loro habitat naturale.
Si comprende, dunque, perché il ritorno delle lucciole sia una buona notizia. Ma è verosimile che ciò che sta accadendo ad esse (e alle rondini, alle api, ecc.) stia accadendo anche ad altre specie a noi sconosciute. Insomma si tratta di un ritorno rassicurante per l’integrità e l’equilibrio dell’ambiente.
Grazie alla loro lampante visibilità possono riprendere a svolgere l’importante ruolo di indicatori biologici attestanti la salute dell’ambiente riconquistato. Un po’ come le distese di posidonia rappresentano per il nostro mare un rassicurante segnale di acque “sane”.
Naturalmente questo ritorno a macchia di leopardo non deve farci illudere più di tanto. Si tratta solo di un segnale isolato che deve spronarci ad eliminare l’uso aggressivo e indiscriminato dei pesticidi. In altre parole, a rispettare di più la natura.
E come, per le rondini, vale il detto “Una rondine non fa primavera”, così per le lucciole l’ “anomalia” di una campagna ripopolata di magiche luci non deve farci gridare al miracolo. I miracoli, oltre che meritarli, bisogna fabbricarseli giorno dopo giorno.
GUIDO GIAMPIETRO
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