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In verità, forse non ho mai capito cosa voglia dire essere felice.
Ho avuto dei bei momenti: la laurea, il primo giorno di impiego, qualche scopata, varie cene e qualche bel viaggio … basta per essere felice? Non lo so.
Ogni tanto , in passato, me lo sono chiesto.
Mi chiamo Sergio, Sergio Schina e sono un medico di base.
Il mio lavoro mi piace: come medico sono attento e scrupoloso.
Ho l’aria condizionata ed il riscaldamento nell’anticamera del mio studio, allungo sempre gli orari di visita, non ho voluto mai raggiungere il massimo numero di assistiti per non creare attese snervanti e, in genere, lascio il mio numero di telefonino a chi davvero penso ne abbia bisogno.
Quando ho deciso di non specializzarmi ho deluso tutte le aspettative che la gente aveva su di me.
La laurea con una sessione di anticipo e la media altissima avevano fatto pensare ad un futuro di maggior successo ma a me va bene così.
Ho un paio di frequentazioni per così dire, intime, ed una grande amica, Gloria, medico single come me, con cui condivido la mia vita mondana che si riduce alla cena del sabato sera, a qualche festicciola privata, un paio di concerti l’anno ed il viaggio estivo.
Naturalmente non sono sposato e negli ultimi cinque anni sono riuscito a vanificare gli sforzi di mia madre e di mia sorella per accasarmi in modo conveniente.
Mia madre e la madre di Gloria sono imparentate alla lontana ed anche loro, in passato, hanno brigato per il nostro matrimonio.
Noi abbiamo resistito con determinazione e convinzione sino a quando le due non hanno dichiarato apertamente una resa totale ed incondizionata.
Anche in questo le aspettative di mia madre erano diverse: lei desidera ardentemente diventare nonna e per questo confida ancora in me dal momento che mia sorella non ha mai potuto avere figli per una severa endometriosi mal gestita.
Anche in questo sono quasi scemate.
Solo di tanto in tanto, la domenica a pranzo, senza troppo crederci, mia madre e mia sorella si avventurano in sempre più stanche uscite che dovrebbero spingermi ad un maggiore coraggio sociale o ad una pronta e numerosa procreazione : – quel tuo collega, il dottor A., l’ho conosciuto sai? Ha aperto la seconda clinica del benessere, guadagna davvero tanto – oppure – Andrea ha avuto un altro bambino , l’ho visto, che carino … … e Rosaria così è diventata nonna … per la quarta volta … – .
L’ultima frase la scandisce guardandomi da sopra le lenti degli occhiali ed è generalmente seguita da un sospiro facilmente udibile dal vicinato.
Poi, dato il mio silenzio, mia madre e mia sorella si guardano sconsolate ed è il via per iniziare a parlare di cibo, di televisione, di viaggi e di come organizzarsi fra loro per tenere in ordine il mio ambulatorio.
Per loro sono la persona più seria ed affidabile del mondo … se sapessero dove sono ora …
Di questa situazione in cui mi sono cacciato neanche a Gloria ho detto niente; adesso come le spiegherei che alle due e mezzo di un pomeriggio di luglio sono su un terrazzo fra cavi della televisione inutilizzati, un passeggino semidistrutto senza una ruota e due cassette di plastica piene di bottiglie verdi di vetro vuote?
Che le dico?
Che la competizione è per me una sorta di diminuzione ? Che incontrare una donna che “ è affascinata “ da me, che mi trova “eccezionale” e che sa che sono “unico” mi terrorizza ? Che ho una spiccata vocazione per la mediocrità ? Che il successo e la visibilità sociale mi paralizzano ? Che la competizione in tutti i campi ed in tutti i sensi è per me una sorta di diminuzione ?
Io di questa mia inclinazione patologica ne ho preso coscienza nel periodo delle scuole medie.
Scrivevo i compiti in classe nella metà del tempo degli altri e con la mia memoria prodigiosa avrei potuto sostenere qualsiasi interrogazione su qualsiasi argomento appena sfiorato dagli insegnanti.
Una curiosità sfrenata mi portava a consultare enciclopedie, a sfogliare i libri del liceo di mia madre, a scoprire connessioni con altre materie.
In qualsiasi interrogazione, però, cercavo di dire poco, di rispondere nel chiasso e nel disinteresse dei compagni e dei professori, che se avessi detto di più avrei attirato la loro attenzione e lì sarebbero cominciati i guai.
Essere da otto o otto e mezzo mi metteva al sicuro.
Svolgevo i compiti prima di tutti e poi nel tempo rimasto calcolavo con cura gli errori da inserire per non ottenere il massimo dei voti.
A quei tempi, però, la mia tecnica di mimetizzazione non era così raffinata ed il giudizio rimaneva eccellente nonostante i miei sforzi.
Io però, non ero un bambino infelice, anzi.
Ho trascorso una bella infanzia e, beh, riguardo alla mia adolescenza conosco chi se l’è passata molto peggio di me.
… continua…
A.Serni
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