L’informativa resa dal Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin al Consiglio dei Ministri sul futuro dei poli energetici di Brindisi e Civitavecchia suscita profonde perplessità. Da un lato, il Ministro non può che confermare gli impegni formalmente assunti – a partire dal PNIEC – relativi alla chiusura dell’esercizio a carbone delle due centrali entro il 31 dicembre 2025, dall’altro, però, viene ipotizzato un non meglio specificato ricorso a una “riserva fredda”, giustificata con riferimenti a una presunta emergenza internazionale che, allo stato attuale, appare poco plausibile e industrialmente ingiustificabile.
A Brindisi, peraltro, Enel ha già anticipato a ottobre 2024 il phase-out dal carbone: un fatto che dimostra come esista una traiettoria industriale realistica orientata alla transizione energetica e alla crescita delle fonti rinnovabili, e che rende ancora meno comprensibile l’idea di mantenere gli impianti in una lunga fase di “stand-by”.
«Confermare l’uscita dal carbone è un atto dovuto, ma ipotizzare una “riserva fredda” senza motivazioni chiare e verificabili significa rischiare di trascinare i territori in una “lunga agonia industriale”, congelando bonifiche e riconversione e lasciando sospese lavoratrici e lavoratori dell’indotto», dichiarano Daniela Salzedo, presidente di Legambiente Puglia, e Doretto Marinazzo, presidente di Legambiente Brindisi.
Secondo Legambiente, la tesi della riserva fredda non regge su tre piani:
1) Piano industriale e autorizzativo
Non è chiaro quale legame concreto possa esserci tra una presunta emergenza (che si lascia intendere collegata al mercato del gas) e l’assetto industriale di centrali a carbone ormai dismesse o in dismissione, né come questa ipotesi si concili con gli iter e le prescrizioni delle “Autorizzazioni Integrate Ambientali (AIA)”.
2) Piano energetico e di contesto
Evocare scenari di emergenza sul gas oggi appare del tutto ipotetico, soprattutto se si considerano l’andamento delle forniture possibili e la dinamica dei consumi nazionali. Resta invece urgente intervenire sulle distorsioni del mercato, a partire dall’anomalia di un prezzo del gas fortemente influenzato dalla borsa di Amsterdam, ma questo non può diventare l’alibi per rinviare la transizione nei territori.
3) Piano tecnico-territoriale
Tenere “in riserva” un impianto significa, di fatto, prolungarne la vita e bloccare lo sviluppo alternativo delle aree coinvolte: bonifiche, reindustrializzazione e nuovi investimenti finiscono in attesa, con un costo sociale e ambientale che ricade sul territorio.
Legambiente richiama il Governo a due responsabilità immediate e non rinviabili:
a) Ammortizzatori sociali per l’indotto
La priorità non riguarda i circa 340 occupati diretti della centrale – che non sono il punto critico – ma i circa 400 lavoratori dell’indotto che rischiano di pagare il prezzo più alto della transizione se non governata con strumenti adeguati.
b) Accelerare l’Accordo di Programma e le 61 manifestazioni di interesse
Occorre imprimere un’accelerazione netta alla valutazione e alla realizzazione delle 61 manifestazioni di interesse presentate nell’ambito dell’accordo di programma per il riconoscimento di Brindisi come area di crisi complessa. Il tempo degli annunci è finito: servono cronoprogrammi, risorse, responsabilità chiare e cantieri.
Esistono tutte le condizioni perché il Governo arrivi a una legge speciale per Brindisi, con un impegno diretto – anche finanziario – dello Stato in uno dei territori che più hanno subìto l’impatto negativo della politica industriale fondata sui combustibili fossili.
Da qui può partire una vera inversione di rotta, valorizzando:
• gli impegni industriali già annunciati da Enel;
• e quelli che Eni è chiamata a rendere concreti, a partire dalla prospettiva della “Gigafactory” per batterie di accumulo (con l’obiettivo di 700 posti di lavoro), se verrà pienamente realizzata.
Ma la condizione è una sola: bonifiche certe, tempi certi e investimenti veri su rinnovabili, innovazione e nuova manifattura sostenibile.
«Brindisi può creare non centinaia ma “migliaia di posti di lavoro” ad alto valore aggiunto, diventando un riferimento nazionale della transizione. Per farlo bisogna chiudere davvero col carbone e smettere di tenere i territori “in sospeso”: servono bonifiche, reindustrializzazione e rinnovabili, non riserve fredde», conclude Legambiente.
